loader
menu
© 2024 Eddyburg
Giulia Iacolutti
La città dei rifugiati
26 Giugno 2017
2015-EsodoXXI
«Viaggio nel campo di Zaatari, uno dei più grandi del mondo, dove sono ospitati 80 mila profughi .Al centro di distribuzione c'è la fila: bisogna passare il riconoscimento dell'iride oculare».
«Viaggio nel campo di Zaatari, uno dei più grandi del mondo, dove sono ospitati 80 mila profughi .Al centro di distribuzione c'è la fila: bisogna passare il riconoscimento dell'iride oculare».

L'Espresso, 25 giugno 2017 (c.m.c.)

«La memoria è ridondante: ripete i segni perché la città cominci a esistere», scriveva Italo Calvino. Il paesaggio semidesertico, il caldo torrido, quel colore, un marrone chiaro e tendente al giallo, che domina l'orizzonte di rocce e deserto. E poi i diavoli di sabbia: alti mulinelli di rena e polvere che si formano improvvisamente, ricordando dei piccoli tornado, e crescono su uno sterminato numero di prefabbricati bianchi e grigi. Se i segni si ripetono, affinché una città cominci a esistere, questi sono i segni che hanno fatto nascere Zaatari, la città dei rifugiati.

Il campo rifugiati di Zaatari sorge al nord della Giordania, su un lembo di terra semidesertico al confine con la Siria, vicino alla città di Al Mafraq. Nato per ospitare le migliaia di profughi in fuga dal vicino Paese devastato dalla guerra civile, Zaatari viene aperto nell'estate 2012, come campo temporaneo di tende, sotto l'egida del governo di Amman e dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. In pochi mesi diventa uno dei campi più grandi del mondo e, per densità di popolazione, la terza città del regno hascemita. Oggi vi abitano circa 80.000 persone. Tutte siriane.

Arrivarci, partendo dalla capitale, è molto semplice: si tratta di circa settanta chilometri di strada scorrevole. Entrare nel campo, invece, è già più complicato. Circondato da un arido perimetro privo di barriere o reticolati, ma controllato giorno e notte dall'esercito giordano, Zaatari ha un'unica strada di accesso alla fine della quale, ovviamente, la polizia chiede di verificare i permessi di entrata rilasciati dallo Stato. Fuori dal posto di blocco non c'è la fila: il campo ha raggiunto la sua capienza massima ed è quindi stato chiuso a nuovi ingressi. Ottenere il permesso per entrare non è per nulla semplice e i rifugiati che escono per lavorare nelle vicinanze sono pochi, e spesso non lo fanno per la via principale.

Noi siamo riusciti a visitarlo grazie al supporto del Norwegian Refugee Council, efficiente ong norvegese che all'interno ricopre un ruolo fondamentale nella distribuzione di quelli che in termine tecnico vengono definiti "non-food items", tutti i beni di prima necessità che non sono alimentari: dai pannolini per i bambini e i vestiti fino ai sussidi finanziari.
Zaatari è diviso in 12 distretti, 12 aree diverse create per praticità e per una migliore organizzazione. Le strade, a un occidentale, possono sembrare tutte simili. Lo stesso vale per le costruzioni destinate ad abitazione. Un occhio più attento, però, può distinguere i distretti in base ai prefabbricati: da una parte quelli donati dall'Arabia Saudita, dall'altra le abitazioni regalate dal Qatar o da altri benefattori.

In ogni distretto, inoltre, ci sono aree destinate a usi specifici, circondate da barriere e filo spinato, controllate all'entrata. Grazie ad Hassan, il giovane "technical communications officer" di Nrc, e grazie soprattutto al loro Country director, l'italiano Carlo Gherardi, visitiamo le attività nel campo della ong norvegese: da un lato la formazione, i grandi laboratori professionali dove i più giovani siriani possono imparare l'arte della sartoria, il mestiere dell'elettricista, come aggiustare un moderno telefono cellulare o come costruire, e poi gestire, un pannello solare. Dall'altra le attività di educazione per i bambini in età scolare: in Giordania, come negli altri Paesi dell'area mediorientale, il tema del diritto all'educazione dei rifugiati siriani rimane una delle sfide più importanti da vincere. All'interno di Zaatari, per fortuna, sono state costruite più scuole in grado di garantire un percorso scolastico ufficiale a tutti questi figli della guerra civile.

Organizzazioni come Nrc, con l'aiuto di Unicef, realizzano programmi di recupero per chi ha perso anni di istruzione, corsi di supporto nello studio, di affiancamento per i bambini che hanno più difficoltà a concentrarsi. Colpisce il lavoro realizzato con il "Better Learning Programme", un progetto mirato ad aiutare i piccoli che non riescono a concentrarsi in classe a causa del sonno disturbato: gli incubi e la paura di quello che hanno vissuto in Siria li continuano a perseguitare.

Zaatari è enorme e la scuola, ovviamente, non è l'unico problema di una città nata all'improvviso. Per anni le case dei rifugiati sono state le tende delle Nazioni Unite. Ora, come detto, sono prefabbricati più moderni, con interni rivestiti da una lamina di legno. L'elettricità, però, c'è solo quando cala il buio. Durante il giorno bisogna farne a meno, tranne che nelle zone provviste di generatore. L'acqua potabile viene fornita dall'Unicef, con grandi contenitori di plastica che vengono ricaricati quotidianamente per servire più di una famiglia. Alimenti e cibo sono garantiti da un'altra agenzia dell'Onu, il World Food Programme. Mentre, per tutto quello che riguarda i beni di prima necessità non alimentari a pensarci è proprio il Norwegian Refugee Council. È grazie a loro che riusciamo a entrare nell'area di distribuzione: è qui che un rifugiato può chiedere quello di cui ha più bisogno. Quando vi entriamo è in corso la consegna di pannolini per i neonati. Decine di donne si muovono silenziose e velate nell'area di riconoscimento, alcune con un semplice velo sui capelli, molte con il velo totale, quello che permette di vedere solo gli occhi di chi lo porta.

All'interno dell'area, però, devono alzarlo per il riconoscimento dell'iride: il governo giordano, infatti, in collaborazione con Unhcr, ha attivato un sistema di registrazione dei rifugiati tramite il riconoscimento oculare. Con una macchina fotografica digitale l'iride viene registrata nei database all'arrivo e ogni volta che è necessario qualcosa dal Centro di distribuzione per l'assistenza umanitaria, che sia qualcosa di materiale o il sussidio monetario mensile, è necessario il suo riconoscimento. Il clima nella stanza in cui avviene è surreale: per chi vive al campo non c'è nulla di più naturale, per i visitatori vedere una fila di operatori chiedere ai siriani di guardare nella macchina fotografica a forma di binocolo crea un clima un po'fantascientifico. E ancor di più quando, dopo pochi secondi, una nitida foto dell'occhio appare sugli schermi dei computer.

Una forma di ossimoro in una "città" in cui, per motivi di sicurezza, nessuno può accedere alla rete internet. Eppure la vita va avanti, nonostante le difficoltà. A raccontarcelo è Farazat, un siriano trasferitosi qua da tre anni. «Prima di scappare dalla mia terra le ho provate tutte: per un periodo ho lavorato come falegname e carpentiere in Libano, per mandare del denaro a casa. Ma dopo pochi mesi sono voluto tornare; non potevo lasciare mia moglie e i miei figli da soli in Siria», ci rivela seduto per terra, nel suo ordinato prefabbricato. «Per qualche mese ho cercato di tirare avanti; ho sperato che la guerra finisse. Ho deciso di scappare definitivamente il giorno in cui è nata mia figlia», racconta. E ancora: «eravamo in un ospedale da campo e lei è nata prematura di qualche settimana. Subito dopo il parto è stata messa in un'incubatrice. Dopo pochi minuti una bomba ha colpito l'ospedale; la piccola ha iniziato a piangere e l'elettricità è saltata, interrompendo il funzionamento dell'apparecchiatura. In quel momento ho deciso che non avrei più potuto rischiare la vita della mia famiglia. Appena mia figlia si è stabilizzata, siamo scappati». Farazat ora ha tre figli, che gli corrono attorno sotto lo sguardo vigile della moglie, mentre ci parla. Sono salvi, sono vivi. «La vita nel campo non è facile, per mesi sono stato passivo, senza far nulla, poi ho ritrovato coraggio e mi sono messo a insegnare l'arte della falegnameria in un centro di formazione. Ora sono felice: siamo salvi, abbiamo un tetto, del cibo, una casa. Ma quando penso alla mia terra, a una vita normale, mi piange il cuore. Soprattutto quando penso ai miei figli, che credono il mondo finisca qua, perché non hanno mai visto altro. Se non il campo, se non Zaatari».

È impossibile descrivere in poche parole una vita così complessa, un luogo così difficile e complicato, una quotidianità così distante dalla nostra, ma reale. L'esempio lampante, forse, sono gli "Sham Elysees", il viale principale, che prende nome un po' da Parigi e un po' dal nome arabo di Damasco. Sham, appunto. È lì che si può sentire con gli occhi come la vita vince, comunque, sulle tragedie umane. È lì che i siriani hanno aperto una miriade di negozietti in cui vendono di tutto, dai profumi per le ragazze agli abiti da sposa. Perché a Zaatari c'è chi nasce, chi cresce e va scuola, chi lavora, chi ruba e chi si sposa. A Zaatari c'è la vita. Nonostante tutto. Nonostante il costante tentativo degli esseri umani di provare a porvi fine

ARTICOLI CORRELATI

© 2024 Eddyburg