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Giancarlo Consonni
La città che cambia
11 Dicembre 2005
Articoli del 2004
“Non è la militarizzazione la soluzione, ma il perseguimento dell’urbanitas. Come? Tornando a ragionare per luoghi: perseguendo la loro complessità nelle forme, nelle presenze, nelle potenzialità relazionali, contro la tentazione a erigere recinti, che è l’altra faccia dell’utopia dell’atopia, del mito della rete a cui si va delegando il compito di tenere insieme il mondo.” Questa la conclusione dell’editoriale della pagina della Lombardia del Corriere della sera dell’11 marzo 2004.

La Lombardia? Un contesto unico al mondo per articolazione e interconnessione: un grappolo di metropoli imperniate su Milano, capaci di autonoma forza propulsiva ma anche di fare sistema. Un’imprenditoria diffusa il cui brodo di coltura vanta una tradizione plurisecolare, una pluralità di settori economici che ha finora consentito rapidi superamenti delle crisi. Ma ecco, negli ultimi decenni, la comparsa di patologie “da semplificazione”. A esserne particolarmente investito è il capoluogo regionale: mezzo milione di abitanti costretti dalla rendita immobiliare ad abbandonare la città, 900.000 auto che si riversano tutti i giorni sulla stesso cuore metropolitano, un’elevata dissipazione di energie a cominciare dalla risorsa tempo, uno squilibrio abissale fra presenze diurne e presenze notturne che di notte trasforma molte zone del centro in deserti, l’impoverirsi di un’armatura vitale come le strade commerciali, colonizzate in larga parte da banche, agenzie immobiliari e boutiques identiche a quelle che ormai si trovano in tutti gli agglomerati medi e grandi. E, fatto ancor più drammatico, dopo la scomparsa della componente operaia l’erosione del ceto medio, un tempo folta presenza distintiva della Milano in ascesa, con il profilarsi di un nuovo dualismo sociale fra ricchi e poveri che ripropone nelle strade scene sei-settecentesche.

Ma la semplificazione ha lasciato segni vistosi anche sulla trama minuta e policentrica degli hinterland metropolitani. Mentre esprime una straordinaria vitalità economica, questa trama si dimostra incapace di costruire quadri ambientali e paesaggi di qualità. A farne le spese sono luoghi un tempo segnati da una grazia diffusa, frutto della cura.

La metropoli contemporanea è stato un modo per rispondere alle crisi delle città: la coniugazione delle differenze e l’estendersi delle relazioni hanno creato un organismo più capace di promuovere la crescita economica e di evitare disastrosi regressi. Ma a fronte delle semplificazioni prodotte dai suoi sviluppi maturi, si assiste, per un verso, alla scarsa determinazione dei centri minori a conquistare caratteri e condizioni urbane e, per altro verso, all’incapacità delle stesse città a difendere e a rinnovare la propria urbanità.

Poco male dicono in molti: siamo nella post-città. La città non è più necessaria: le reti materiali e immateriali l’hanno resa inutile.

Reti, flussi e contenitori: può bastare questo a definire l’orizzonte del vivere? No: proprio quando sembra sancita l’inutilità della città, questa mostra il suo apporto specifico: prezioso quanto insostituibile. Basti pensare al tema della sicurezza che riesplode periodicamente. Il determinarsi dell’insicurezza è inversamente proporzionale al regredire di relazioni urbane. Non è la militarizzazione la soluzione, ma il perseguimento dell’urbanitas. Come? Tornando a ragionare per luoghi: perseguendo la loro complessità nelle forme, nelle presenze, nelle potenzialità relazionali, contro la tentazione a erigere recinti, che è l’altra faccia dell’utopia dell’atopia, del mito della rete a cui si va delegando il compito di tenere insieme il mondo.

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