Nel giorno del Yom Kippur 5734 Egiziani e Siriani attaccano Israele, da sud nel Sinai e da Nord nel Golan, è il 6 Ottobre del 1973, dopo due settimane, il 24 Ottobre, la guerra si chiude con Israele che riesce, dopo una prima settimana in cui subisce, a respingere l’attacco e a mettere timore ai due Stati Arabi. Due settimane che cambiarono l’Occidente, lo cambiarono perché per la prima volta dalla fine della seconda guerra, questo si scoprì vulnerabile. Lo sviluppo economico con cui il mondo occidentale aveva conosciuto prosperità e opulenza, affondava le sue radici nella sabbia della dipendenza petrolifera dai paesi arabi. Finita la guerra sul campo iniziò quella economica, con i paesi dell’OPEC che chiusero i rubinetti del petrolio: “la crisi petrolifera del 1973”. Fu nelle città e in televisione che la crisi si mostrò con tutta evidenza. Fu anticipata la conclusione serale dei programmi televisivi, le domeniche erano senza auto. Si circolava in bici, a cavallo, con i pattini a rotelle, a piedi. Nel lessico quotidiano entrò la parola austerità. Un contraccolpo, il rischio di una “marcia indietro” irruppe proprio dentro le città fino ad allora lo scenario più importante di uno sviluppo che si pensava senza fine. La modernità era la città, lì approdava, chi era fortunato e aveva coraggio, dopo essersi lasciati alle spalle la campagna e le misere condizioni del paese, là da qualche parte, nel sud o nel Nord est del Paese, nelle isole.
Dietro quelle città senza auto che si riempivano di folle appiedate bisognava leggere però un cambiamento ben più profondo. Qualcuno ci provò a raccontarlo:
«fino a ieri avevamo provato a crescere, a svilupparci in termini di reddito proprio puntando sull’automobile. Fino a ieri la preoccupazione non era come liberarci delle macchine, ma semmai come entrarci ancora di più. … La macchina oggi semiproibita è stata in questo dopoguerra il razzo al quale ci siamo attaccati per uscire dal sottosviluppo. Un razzo è bene dirlo, più potente di quanto non si pensi solitamente. Basteranno pochissime cifre: nel 1959 in Italia circolavano poco più di un milione e mezzo di autovetture (non consideriamo cioè gli autobus e i camion) e il nostro reddito nazionale lordo era (a lire costanti 1963) di appena 24 miliardi; alla fine del 1972, tredici anni dopo, le auto erano diventate tredici milioni mentre il reddito (sempre a lire costanti) era riuscito a superare di poco i 46 miliardi. Cosa significa tutto questo? Che mentre in tredici anni il reddito è aumentato di 1,9 volte (cioè non si è nemmeno raddoppiato), la circolazione di automobili è salita di 7,5 volte. non c’è da meravigliarsi che abbia invaso tutta la nostra società. Non stupisce che sia diventata un problema, una specie di maledizione».
Finiva (o sarebbe dovuto finire) quindi un modello di crescita che era tanto semplice quanto insostenibile. Semplice perché si basava su due assunti: che l’energia si ricavava solo dal petrolio e che le persone per spostarsi avrebbero usato solo l’auto. Erano queste le due idee guida del capitalismo che già allora mostravano la corda. La crisi mediorientale e la conseguente crisi energetica ne anticiparono solo l’esplosione . L’Italia, che forse non ha mai sperimentato un capitalismo maturo, fece di queste due idee il suo credo principale; si pensi che 9/10 del fabbisogno energetico del paese allora era prodotto dal petrolio. E per quanto riguarda le auto basti ricordare che nel 1973 l’”economia dell’auto” valeva circa 11.000 miliardi, il 13% della ricchezza nazionale. Dentro un problema energetico che toccava nel complesso il modello di sviluppo dei paesi occidentali c’era quindi una specificità e una peculiarità tutta italiana. Ma, come detto, dietro quelle domeniche a piedi c’era l’esigenza di guardare più a fondo, oltre il folclore dei caselli domenicali di ciclisti e degli appiedati: dentro, sul fondo c’era l’esigenza di cambiare il modello di sviluppo. Si svolse in quei mesi un dibattito importante nel quale si confrontarono posizioni diverse. Nel rileggere le cronache di quei giorni si coglie una preoccupazione tra le forze politiche e gli intellettuali di sinistra, ovvero che sulla crisi energetica si potesse giocare una partita politica di segno reazionario, che riproponesse una società autarchica, chiusa; il rischio di un ritorno al primitivismo come lo esorcizzò il filosofo Paolo Rossi. La crisi aveva messo al centro la questione della fine del modello di sviluppo seguito fino a quel momento e la necessità di mettere in essere un modello alternativo. Una necessità che, si disse, nasceva dall’essere precipitati in un nuovo “dopoguerra”, ma questa volta senza essere stati in guerra.
Si respirava un clima culturale che insisteva come avvertì Giorgio Ruffolo, su «interpretazioni mistico reazionarie, che ad ogni crisi dell’umanità ripropongono lo spauracchio di un’apocalisse; e che esprimono in tal modo un sostanziale scetticismo nella ragione e nell’uomo, sottindendendo un senso autoritario della risposta alla crisi». Le posizioni progressiste si orientavano invece nel rivedere il sistema di valori sociali che si dovevano perseguire e di sottoporre a critica gli stili di vita dominanti in quegli anni in cui l’affermazione del modello individuale aveva messo radici profonde nella psicologia e nei comportamenti individuali e si apprestava a dispiegare in modo pervasivo la sua forza. Zangheri, allora sindaco di Bologna, descriveva così questo nodo della discussione:
«non c’è dubbio che un mutamento è necessario, ma in direzione di quali fini e valori esso va effettuato? Credo che sia abbastanza diffusa la consapevolezza che la svolta deve essere compiuta in direzione di consumi e attrezzature sociali, e di modi di vita sociale. Qui si pone subito un quesito: i valori sociali collettivi sono antitetici e alternativi rispetto a quelli individuali? Non lo credo. Il libero e spontaneo realizzarsi di ognuno, la felicità personale, la versatilità dell’inclinazione possono anzi trovare spazio proprio là dove cessano la sfrenata competitività individuale e la ricerca egoistica del profitto. Se dovessi indicare in concreto dei valori nuovi, essenziali (…) suggerirei quelli più semplici: la salute fisica e psichica, il verde, l’ossigeno, l’alimentazione, la cura delle età deboli. (…) Con tutti i limiti propri di un’esperienza locale, vorrei ricordare che a Bologna si sono compiuti in questi anni tentativi di concepire ad esempio l’urbanistica come arte e tecnica collettive. Tutti i provvedimenti di assetto del territorio sono stati realizzati dai quartieri, e con i quartieri. La conquista delle aree di uso sociale, è stata una conquista di massa nel senso che vi hanno partecipato, attraverso la discussione, l’iniziativa, la lotta, larghi strati di cittadini. Ora i quartieri gestiscono queste aree meglio di qualunque azienda specializzata. Vorrei sottolineare non solo il risultato raggiunto per porre un limite invalicabile alla speculazione edilizia, ma anche attraverso la gestione diretta del territorio i cittadini prendono coscienza profonda dei valori che hanno contribuito a salvaguardare: se ne sentono corresponsabili e compartecipi. La progettazione, la costruzione collettiva di uno spazio abitato, diventano così opera di realizzazione dell’uomo».
Una strada per uscire dalla crisi sembrava potesse essere quella di un nuovo modello di vita ispirato a nuovi valori che dovevano essere quelli più semplici, quelli più vicini all’uomo. Maturava attorno a questa convinzione la possibilità di cogliere quella contingenza per fare affermare valori nuovi e di non farla andare sprecata, anche per questo si rifiutava la discussione astratta sul nuovo modello di sviluppo, che non affrontasse la questione dei valori e degli obiettivi che si intendevano perseguire e su come concretamente perseguirli. Bisognava contrastare una discussione generica, di maniera, che poteva favorire la diffusione di suggestioni regressive, reazionarie, non scientifiche. Inevitabilmente la discussione ripropose la necessità di una regolazione pubblica, di una programmazione che potesse dare profondità temporale alle iniziative economiche e sociali e che potesse contrastare gli squilibri intrinseci alle scelte individuali i cui esiti potevano compromettere il bene comune. Era necessaria «un tipo di programmazione, un tipo di organizzazione complessiva che sappia coinvolgere tutti, e in ugual misura, nelle necessità e nelle prospettive di sviluppo». Più esplicita la posizione di Giorgio Ruffolo:
«Ora mi pare che la formula di una organizzazione sociale moderna, adeguata a quei valori, sia quella della pianificazione con il consenso: il che significa una organizzazione sociale diversa da quella che abbiamo noi, cioè uno Stato diverso, uno Stato decentrato nel quale i cittadini associati possano sostituirsi agli organismi burocratici: uno Stato in cui si riconoscano. Questo è il “nuovo modello”».
La sintesi in forma di auspicio allora operata da Giorgio Napolitano fu: «una crisi drammatica come quella che ora si è bruscamente manifestata, (…), rappresenti un’occasione importante per far fare un passo avanti al paese sulla via di una direzione pianificata della vita economica e sociale». Si coglieva, solo in parte, la verità profonda che quella crisi mise in evidenza, e cioè le conseguenze globali, non più sostenibili per la collettività, di comportamenti individuali legittimi nella sfera del singolo ma insostenibili a livello di interesse generale.
Sappiamo che quella fu solo l’alba di un fenomeno la cui portata oggi sentiamo in tutta la sua forza dirompente e a cui pare non ci siano più argini. La crisi non portò ad affermare dei valori “più alti”, valori che non “fossero più individualistici, non più solo consumistici, né competitivi.”. La ragione delle cose si orientò su percorsi diversi da quelli di chi considerava che:
«il solo modo corretto per affrontare il problema è quello di porre alla base dello sviluppo la ragione, cioè di programmare. Non c’è altra soluzione che questa. Ma programmare vuol dire piegare alle esigenze dell’interesse generale le tendenze spontanee delle forze capitalistiche, perché i fatti ci dimostrano che le tendenze spontanee, abbondanate a sè stesse, portano alla situazione di oggi».
La ragione è andata in direzione diversa e la crisi di oggi ci ripropone lo stesso volto del problema: i limiti dell’agire individuale e l’affermazione del bene comune. L’energia ricavata dal petrolio e la maledizione dell’auto sono in buona misura ancora le ragioni del nostro dibattere. Non siamo usciti dalla civiltà dell’auto/dell’individualismo egoista, e perciò restano attuali le parole di Giuseppe Turani: «Ma allora questo significa che non possiamo uscire dalla civiltà dell’auto? Che il nostro incubo felice è destinato a rimanere soltanto un incubo? No. Il significato è un altro. Dopo aver vissuto per quasi trent’anni sull’automobile non possiamo pensare di liberarcene a colpi di decreti nel giro di qualche settimana. Occorre un “piano automobile” che ci dia città diverse, un’organizzazione del tempo libero diversa, una rete di trasporti pubblici diversa. E’ un programma che non si può calcolare a mesi ma ad anni»
La posizione della cultura urbanistica sulla crisi energetica è sintetizzata dall’ editoriale del numero 62 di Urbanistica dove Astengo dà il suo punto di vista su quanto era successo e formula una ipotesi. Ne riportiamo ampi stralci.
«Tutti immersi nella pesante crisi economica dimentichiamo spesso le sue lontane radici. Non è inutile, quindi, richiamare alla mente che fra le sue non secondarie origini sia la mancata programmazione dello sviluppo economico nel paese e il correlativo mancato controllo dell’uso del suolo, ripudiati entrambi, dieci anni orsono, proprio nel momento iniziale dell’esperimento di centro sinistra, quando con il clamoroso ripudio della predisposta riforma urbanistica, venivano gettati a mare i principali strumenti operativi della programmazione, che veniva in tal modo ridotta al solo enunciato delle intenzioni.
«Che cosa poi nel decennio successivo abbia saputo produrre sul territorio la “libera iniziativa”, senza piani e programmi, è sotto gli occhi di tutti .(…) Quest’analisi dimostrerebbe con le cifre che l’attuale crisi economica discende anche da scelte urbanistiche, dalla distribuzione territoriale degli investimenti dalla modalità con cui gli interventi sono o non sono stati normati e come essi in effetti si sono attuati; scelte che non si possono sbrigativamente imputare solo al sistema capitalistico in generale, come è ormai d’uso, ma che vanno analizzate e motivate nello specifico, concorrendo in tal modo ad un’analisi sui motivi della lunga crisi urbanistica in cui ci dibattiamo da decenni.
«Una lunga notte urbanistica che ha addormentato le capacità inventive e paralizzato le amministrazioni locali, mentre il saccheggio del territorio è stato portato alle estreme conseguenze fino a quando, per autoconsumo delle proprie energie, il dissennato processo di sviluppo urbanistico ha trovato il suo limite ed è entrato nell’attuale spossatezza e di arresto.
«Come uscirne? Non è all’orizzonte alcun nuovo provvedimento legislativo per la “legge quadro”, segno che non esiste al vertice la esatta percezione dello sconquasso urbanistico del paese e dei costi economici da esso indotti.
«Difficile dunque che dall’alto venga l’indicazione di un “nuovo corso”: la sola speranza è di ripartire dal basso. (…) Vivo è ancora rimasto, fortunatamente, lo specifico campo locale dell’operatore politico ed è in queste sedi che sta riprendendo, sia pure a pezzi e bocconi, il discorso urbanistico; è partendo da qui che, poco per volta, il discorso potrà diffondersi e dilatarsi, generalizzandosi, fino a diventare nuovamente problema politico per tutti. Senza contare che a livello regionale, superata ormai la prima durata fase di messa in moto del nuovo meccanismo, si stanno delineando numerose iniziative, dalla Lombardia alla Calabria, di indubbio interesse per la ripresa in termini nuovi del discorso sulla programmazione e l’assetto territoriale. Qualcosa dunque si muove.(…)
«Ed anzitutto dobbiamo, tutti assieme, dare una risposta al quesito se, giunti, come siamo, ad un punto morto in un ciclo almeno decennale di insensato sviluppo territoriale ed insediativo, sia ora da riprendere il cammino, con tutti gli sforzi che ciò comporta, per ripercorrere, con un successivo ciclo, lo stesso tipo di sviluppo, ripetendo gli stessi errori che alla fine presenterebbero gli stessi risultati, solo mostruosamente amplificati, o se non sia giunto il momento di cercare un’altra via d’uscita. La risposta è a portata di tutti, soprattutto di chi, nonostante i venti avversi, non ha del tutto ammainato le vele».
L’ipotesi era che dopo le sconfitte subite sulla legge del regime dei suoli e sulla mancata programmazione, si dovesse ripiegare “nel possibile” rappresentato dalla pianificazione locale. Un discorso urbanistico coerente con una visione tecnica dell’urbanistica ma che si rivelò insufficiente dinanzi alla rilevanza della crisi. L’impressione è che ci fu sul momento una sottovalutazione del rapporto tra la crisi energetica e la città, anche Leonardo Benevolo che scriveva sul Corriere della Sera non dedicò nessun intervento diretto a quanto stava avvenendo . Nel 1971 la dotazione di linee metropolitane nelle città italiane ammontava ad appena 47 km, 11 a Roma, 23 a Milano e 13 a Napoli. Quelle in costruzione ammontavano nel 1973 a 23,5 km. A fronte dei 2.400 mld di lire necessari per realizzare i previsti 400 km di nuove linee, per tutti gli anni ’70 la disponibilità di risorse economica fu di appena 640 mld . Cifre, che rendono evidente la condizione di vulnerabilità con cui le città si presentarono dinanzi alla crisi energetica.
Non si può non cogliere nel dibattito che si svolse su l’Unità la consapevolezza di un cambiamento forte ma le ricette individuate apparivano già allora deboli, debolezza che confluiva nello stesso punto dal quale Astengo, ormai sfiduciato, si voleva discostare: una visione programmatica, un piano forte in grado di affermare il principio di un interesse generale sull’agire dell’individuo. La proposta di Ruffolo di una “pianificazione con il consenso” segnalava per contro l’incertezza sull’ispirazione ideale del modello centralistico e l’esigenza di un confronto sui valori che si intendevano perseguire.
Nello stesso tempo la sensibilità di chi avvertiva l’esigenza di un avvicinamento alla centralità del cittadino organizzato in forma associata, nella gestione e nell’uso delle risorse, divenne subito dopo solo una rivendicazione di tipo amministrativo con la nascita delle circoscrizioni, dei comitati di quartiere, di quella che anni dopo si rivelò essere una burocrazia della rappresentanza.
Verrebbe da dire che la questione è sempre la stessa e che siamo ancora lì, a quel confronto, a quegli argomenti che già allora apparivano stanchi, figuriamoci a distanza di quarant’anni anni. Siamo ancora lì anche con la straordinaria coincidenza che i nodi sociali vengono al pettine proprio nel rapporto tra lavoro, produttività e industria automobilistica, ma questo merita un altro approfondimento.
Ma anche se i fattori in gioco sono comunque quelli, e si riducono necessariamente al rapporto tra agire individuale e bene collettivo, che è per l’appunto il fondamento stesso di legittimità dell’urbanistica, tutto è diverso e resta aperta la contesa sul modo con cui ogni stagione politica e culturale è in grado di declinare questo rapporto per mettere in equilibrio la tensione tra individuo e collettivo. Dovremmo allora imparare a non usare ricette vecchie per problemi nuovi. L’urbanistica dovrebbe essere sensibile alla “vita che accade” a ciò che nella città appare ogni giorno, cogliere il volto della città come “apparire manifesto” in continua trasformazione.
Guardare da oggi al modo in cui la cultura urbanistica seppe rispondere a quella crisi è compito difficile e il rischio di forzature e male interpretazioni che non tengano conto della congiuntura sociale e culturale di quegli anni è molto alto. Quello che si coglie però è come una certa insensibilità dell’analisi urbanistica dinanzi a quanto la crisi energetica nascondeva, oltre alle apparenze. Quasi un distacco dall’evento e, di conseguenza forse, le chiavi interpretative che la cultura urbanistica seppe offrire ci appaiono distanti, incapaci di cogliere il segnale di allarme che quella crisi portò nella nostra vita quotidiana e che nascondeva però una messa in discussione dei modelli di sviluppo di quello che già allora era in nuce e che dopo fu chiamato il capitalismo egoista.
Le città non divennero il luogo dal quale ripensare i valori dell’agire individuale e collettivo a partire dal contenimento della mobilità privata. Non furono il campo di sperimentazione di modelli di sviluppo alternativi che concretizzavano i valori sociali e contenevano l’individualismo. La cultura urbanistica si affidò alla strumentazione ai poteri taumaturgici del fare il piano, all’urbanistica paleotecnica, operò alla scala locale imponendo spesso delle visioni di piano che si rifacevano a modelli diversi, che tentavano di ribaltare il modello di sviluppo imperante. Ma così non si potè che constatare sempre più la distanza con ciò che gli abitanti facevano e pensavano con i valori portati nella vita quotidiana che erano invece sempre più marcatamente individualistici. L’idea di piano da una parte e gli abitanti, sui quali sempre più si imprimevano i comportamenti consumistici del capitale, dall’altra.
La città è allo stesso tempo il campo di azione e il prodotto più complesso del modello di sviluppo economico e sociale ed è nell’urbano che si può agire per avere modelli di sviluppo alternativi e/o per correggere gli squilibri prodotti dall’agire individuale ed egoista. La crisi economica, le crisi, ormai ripetute, possono essere meglio capite nelle città ma anche per questo è qui che meglio possono essere affrontate. E’ con un progetto sulle città italiane che sarà possibile considerare in modo diverso la crisi economica attuale e non rimanere stretti tra l’adattamento ai crescenti squilibri e la riduzione del danno con tentativi progressivamente più conservatori e reazionari. Le vicende successive alla crisi del 1973 ci raccontano che forse fu proprio allora che non si comprese la complessità di una posizione che coniugava lo sguardo sugli stili di vita delle persone, lo sguardo più prossimo al cittadino, e lo coinvolgeva in modo diretto nell’organizzazione dello spazio urbano.