L´ordine venne impartito quasi in sordina, in calce alle direttive che il Gran Consiglio del fascismo emanò nella sua riunione del 9 marzo 1937, indetta per «potenziare sempre più la coscienza imperiale della Nazione». In una dozzina di parole si disponeva che «tutti i dipendenti delle Amministrazioni dello Stato» fossero «iscritti nelle Associazioni fasciste», delle quali nello stesso comunicato si sintetizzava la potenza numerica. Tra Fasci di combattimento, Fasci giovanili e femminili, Gruppi Universitari Fascisti e vari organismi collaterali il partito poteva contare, in quell´anno XV dell´Era littoria, su oltre nove milioni - per la precisione 9.251.989 - di militanti «inquadrati» con regolare tessera.
Fuori del lusinghiero calcolo restavano, fino a quella mattina di settant´anni fa, solo i «ministeriali». Una categoria che si riteneva attardata su residue posizioni liberali o tutt´al più «opportunistiche», legata a inattuali riti pantofolai: assai più romanesca (si deplorava) che romana imperiale. L´esemplare tipico della specie era appunto quel burocrate di genere eticamente «profano», quell´individuo appartenente al «limbo», che - secondo lo scrittore Emilio Radius, autore nel 1964 di un saggio sugli Usi e costumi dell´uomo fascista - veniva trattato dagli squadristi o dai camerati di antico fusto «come i soldati trattano in caserma i borghesi». Il modo di registrarne la presenza quando qualcuno di loro s´affacciava nei corridoi di un Gruppo Rionale - «c´è qui un borghese» - era già una denuncia. In linguaggio littorio significava: «Eccolo lì, è un non iscritto al partito».
Ora l´anomalia, già da tempo oggetto di segnalazioni e parziali «reprimende», è ufficialmente sanata. Si sa che la gran massa dei tesserati è in realtà estranea all´attività e alla vita fascista. Ma l´inclusione dei ministeriali nei ranghi conta in quanto lezione. Il renitente borghese (è ancora Radius a descriverlo) mette piede «nelle case del fascio come un cristiano entra in una moschea». Dopo una breve attesa viene interrogato con drastica petulanza attraverso una serie di moduli. I questionari indagano sulla sua biografia: «Gradi rivestiti nell´esercito? Campagne compiute? Decorazioni guadagnate? Detenzione di armi, e quali?». Spesso il compilatore dello stampato è pacifico, inerme e tendenzialmente apolitico, e non se la sente di negarlo. Il suo arruolamento, comunque, risponde all´esigenza di «ripulire gli angolini», scovando i potenziali fascisti «deboli» o addirittura «ex democratici». Non sarà mai possibile trasformarli in una falange di arditi; ma essi faranno numero, contribuendo all´espansione di tre elementi cari alla liturgia nazionale: distintivo, camicia nera, saluto romano.
Il primo membro della triade - il distintivo - potrà essere assunto, quando se ne faccia un uso negligente, in funzione disciplinare. Nell´ottobre del ‘41, quattro anni dopo il reclutamento coatto dei «ministeriali», la rivista Gerarchia segnalava con severità: «E´ ora di sfatare la leggenda che taluni fascisti, non portando il distintivo del Partito all´occhiello, compiano un atto di indisciplina o di semplice menefreghismo. Compiono invece un atto di vera e mera viltà, inquantoché nel contempo non rinunciano, e non rinuncerebbero per la pelle, al possesso della tessera che loro serve egregiamente per il posto, per la tranquillità e per ogni opportunissima evenienza». Ed ecco che la segnalazione del malcostume diventa minaccia e sarcasmo. Si ironizza ruvidamente sul fattore-disattenzione. «Quanta brava gente perde involontariamente il suo distintivo! Bisognerà che i sarti si decidano a ridurre le misure delle asole nei risvolti delle giacche. Con queste asole di grosso calibro i distratti vanno incontro a un´infinità di seccature».
Principale sinonimo di distintivo diventò un termine di successo: la cimice. Lo scrittore Alfredo Panzini era stato il primo a registrarne l´uso come «espressione di dileggio con cui i nemici del regime indicano l´emblema fascista che si porta all´occhiello», segnalando che dopo essere stato di forma ovoidale fino al 1926, il distintivo - o cimice - era diventato quadrangolare. In Romagna, segnalava Panzini, si preferiva designarlo con un nomignolo a sua volta sgradevole: «bagherozzo». Più tardi Vitaliano Brancati avrebbe così descritta l´adozione del distintivo da parte di un suo personaggio memorabile, l´impiegato comunale Aldo Piscitello, protagonista del racconto Il vecchio con gli stivali ed emblema dell´italiano piccolo-borghese degli anni Trenta, fascista per necessità alimentare e per estenuazione psicologica: «Sulla sua giacca nera s´era posato come un maggiolino il distintivo col fascio, ed egli di tanto in tanto lo guardava torcendo gli occhi all´ingiù».
Accanto al distintivo principale, che connotava l´iscrizione al Fascio, ne nascevano altri "d´occasione", celebrativi di singole imprese del Regime. Al punto da indurre nel 1930 Giuseppe Bottai, allora ministro delle Corporazioni, ad opporre un suo "no" all´istituzione di un nuovo distintivo in onore dei fascisti feriti negli scontri "squadristici". Al ministro la trovata parve inopportuna. «I fascisti feriti» fece rilevare «sono in numero irrilevante dopo dieci anni!».
E tuttavia la produzione di distintivi non si arrestò. Essi adornavano non solo le giacche ma anche i copricapi che gli atelier governativi andavano inventando e perfezionando senza sosta. In un suo saggio Antonio Spinosa ricorda una vibrante pagina che Piero Calamandrei dedicò a un negozio di capelli ubicato a Roma in corso Umberto: «Una sua vetrina tutta addobbata in nero», raccontava il giurista, mostrava «una ventina e più di cappelli di parata» di cui alcuni erano «grigi, ma i più neri: e su quel nero spiccavano, come coltri funeree, argenti ed ori di galloni e distintivi. Alla base di ogni piolo un cartellino bianco indicava il grado del gerarca al quale era destinato il copricapo fornito di quello speciale distintivo: «segretario generale», «segretario federale», «ministro», «segretario del partito»; col salire delle gerarchie crescevano i luccichii delle lasagne». Al centro della vetrina «una specie di gigantesco tegame» dominava «tra i tegamini satelliti», con in cima un fierissimo uccellone d´oro. E il suo cartello spiegava: DUCE. I passanti guardavano dentro la vetrina in silenzio: e non osavano guardarsi fra loro».
Potevano sottrarsi all´adozione della cimice (bagherozzo, maggiolino o tegamino che fosse) soltanto i possidenti. I quali, in qualche caso specialissimo, formulavano efficaci obiezioni al regime che quegli emblemi imponeva: nel Piccolo Dizionario borghese che lo stesso Brancati pubblicava, insieme a Leo Longanesi, sul settimanale Omnibus, sotto la voce dedicata a Benedetto Croce si leggeva: «Può farlo perché è ricco».
I non benestanti, se in cuor loro avversi all´ideologia ufficiale, venivano dilaniati dal doppio binario sul quale doveva adagiarsi la loro coscienza. Lo storico del medioevo Ernesto Sestan (1898-1986) racconterà più tardi che cosa aveva rappresentato per lui il dover diventare ufficialmente fascista, quando l´obbligo della tessera, già imposto nel 1931 ai docenti universitari di ruolo, venne esteso anche a coloro che volevano diventarlo, figurando fra i requisiti determinanti per partecipare ai concorsi. Allievo di Gaetano Salvemini e di Gioacchino Volpe, collega ed amico di un altro storico di grande avvenire, Federico Chabod, Sestan dedica alla costrizione, cui soggiacque, accenni molto dolorosi nelle sue Memorie di un uomo senza qualità: l´evento, ricorda, «ha inciso in me molto nel profondo e mi lascerà dell´amaro finché vivrò». E subito dopo racconta: «Se ne discusse non so quante serate con Chabod, resi perplessi, angustiati, indecisi. Né lui né io si era sinceramente fascisti: avevamo accettato passivamente il fascismo, perché era il governo che ci governava e ci dava da vivere, e rispetto al quale non si professava nessuna, nemmeno lontanissima alternativa».
La gente semplice associava l´esistenza di molti organismi "di supporto" inventati dal regime alle più umili necessità quotidiane dei cittadini. Per fare un esempio: appena fondato, l´Istituto di Mistica fascista subì a livello popolare una modifica della sua ragione sociale: la parola mistica diventava «mastica». Istituto di mastica fascista. Un motto che può far sorridere. Ma gronda anche desolazione, rinunzia civile.