È possibile che l´architettura divenga il più efficace ritratto (senza alcuna sublimazione) degli aspetti meno amabili della convivenza sociale? Tornando a Shanghai, ma assai di più a Beijing, questo interrogativo sembra confermarsi in tutta la sua ambigua drammaticità rispetto alla capacità vendicativa dell´architettura nel momento del suo affondamento come pratica artistica. Allora, insieme ad un´irresistibile attrazione per la premonizione del vuoto del futuro vi è la tentazione di riempirlo con l´indomabile desiderio del noto, del fraterno, del conosciuto come una reazione incontenibile di paura intorno all´incapacità dell´intelligenza di far fronte al nuovo fatto metropolitano.E l´idea stessa di città a non essere più un insieme interconnesso e riconoscibile di rappresentazione di relazioni ma invece solo quello della quotidiana sopraffazione della megalopoli realizzata. Ogni elemento costitutivo è gridato contro il vicino senza che l´insieme raggiunga la grandezza del combattimento ma solo quella sgangherata della competizione pubblicitaria. Meraviglia, nello stesso tempo, la capacità dell´architettura di trasmettere ostilità e presunzione senza fine in modo tanto compiuto. Anche l´ordine ortogonale planimetrico antico è del tutto senza corrispondenza nelle tre dimensioni; resta solo la sua eco irriconoscibile impressa sul suolo da uno sconvolgimento rabbioso di cieca violenza costruttrice che gridando balbetta di sé stessa.Ogni architettura non è più in alcun modo isolabile e giudicabile in sé. Da un lato il contesto la divora senza distinzione qualitativa: essa non presenta più un punto di vista sul mondo ma il mondo stesso così che, da un altro lato si può dire che lo rappresenta completamente al di là di ogni soggettività. In questo «nuovo pittoresco» (pittoresco non a partire dalla pittura ma da altre forme di rappresentazione) il ruolo del progetto è di divenire cellula di un´organizzazione totalitaria dei valori e degli obiettivi correnti.Non vi è più traccia del senso della necessità ma solo di quello dell´accumulazione, nell´estensione senza fine della volontà di stupefazione senza meraviglioso: meraviglioso è l´insieme di questa assenza di specificità singolare. Tutto è grande, enorme, fuori scala da sé, eccezione nell´eccezione, moltiplicazione di un ipertesto che annulla ogni possibilità della differenza. Non vi è forma edilizia che non sia stata utilizzata, deformata, ingrandita, decorata, coronata, variata in infiniti modi. L´estensione e la cura straordinaria ed antica dell´arredo urbano si assimila al deserto del costruito senza fine, ai frammenti in rovina del passato nobile e povero. Tutto è immerso in una foschia grigia, polvere di demolizioni e umidità inquinante.Ovviamente occorrono per le città cinesi del XXI secolo le spiegazioni del caso: la grandissima estensione della città, la rapidità della sua espansione, del rinnovamento interno e delle trasformazioni sociali, l´immissione violenta di forze economiche straniere, l´ambizione dimostrativa delle istituzioni e della stessa popolazione delle proprie capacità di riconquistare un posto importante nel mondo, le necessità travolgenti del traffico, della fornitura delle energie; tutte questioni tra l´altro a cui la città cinese ha fatto ragionevolmente fronte. È comunque stupefacente come tutto riesca a funzionare con un alto livello di efficienza (gli aeroporti che servono 15/20 milioni di persone sono più efficienti di quelli di Milano o di Roma). Una città come Pechino copre con il suo costruito circa 17.000 kmq, quasi come la dimensione dell´intero Belgio.Di fronte ad uno sviluppo tanto impetuoso quale può essere la risposta della città europea, costruita secondo una temporalità più stratificata, dal punto di vista dell´architettura e del disegno urbano certamente più solida ed articolata, se non cercare forme diverse di modernizzazione misurata, di migliore equilibrio tra nuovo ed esistente, di restituzione di significato ad una differenziazione leggibile?Tutto questo va molto al di là delle capacità indipendenti dalla nostra pratica artistica ma non dei suoi doveri di indicare possibilità. Che la scala metropolitana delle città asiatiche (ma anche di alcune del terzo mondo) sfugga alla comprensione effettiva della nostra mente, che ci faccia toccare con mano la nostra appartenenza al secolo passato, questo riguarda la nostra condizione di generazione di transizione che può ancora avere un´esperienza della memoria di una nozione diversa di città e che può quindi misurare anche ciò che viene perduto. È significativo comunque osservare lo spostamento dell´intelligenza organizzativa umana di fronte all´estensione smisurata, dalla forma delle cose alla loro gestione, con le relative conseguenze sull´architettura.Così per esempio il coronamento dell´edificio si trasforma in gigantesco spazio pubblicitario che ne indica la provvisoria funzione e la connette con altre della stessa natura distribuite nel territorio. Dove non importa; tra luogo e cosa la connessione è interrotta, si riapre solo tra le utilizzazioni. Tutto questo distingue nettamente queste metropoli da quelle del terzo mondo ed ovviamente da quelle europee eppure non si può fare a meno di riflettere sul limite dimensionale della concentrazione urbana e sul come non si riesca con l´aiuto delle comunicazioni e dei trasporti (ed in generale delle nuove tecnologie) a promuovere o pianificare una ridistribuzione territoriale dei fatti urbani più equilibrata. Ci si domanda nello stesso tempo perché non sia più possibile favorire un organico rapporto tra le matrici della città, i loro princìpi insediativi, le loro geografie ed i fatti dell´architettura. Se non sia possibile cioè accedere ad un condiviso principio civile, meno competitivo, ad un ideale di lavoro architettonico meno concitato, capace di affrontare la lentezza che produce la lunga durata, di diminuire le esibizioni spettacolari a favore del ricongiungimento con gli antichissimi fondamenti del compito di costruire poeticamente.Ma forse tutto questo è un sogno impossibile di chi non vuole rinunciare ad amare la pratica artistica