il manifesto, 4 marzo 2017
Alla fine è successo. Il Ghetto di Rignano è stato sgomberato dalle ruspe ma due ragazzi originari del Mali sono morti dopo che un incendio, scoppiato nella notte, ha raso al suolo gran parte del campo. Ieri mattina colonne di fumo nero facevano da sfondo a dozzine di migranti che si allontanavano con le poche cose messe assieme negli anni: un materasso, una bombola del gas o un bidone per fitofarmaci pieno di acqua potabile. Sembra Calais ma siamo Foggia, nel granaio di Italia.
Il 1 marzo inizia lo sgombero della baraccopoli, disposto dalla Dda di Bari nell’ambito di indagini avviate nel marzo del 2016 e culminate con il sequestro con facoltà d’uso della baraccopoli per presunte infiltrazioni della criminalità. Nonostante le ruspe siano sul posto e la zona sia stata sottoposta a sequestro, il giorno seguente una delegazione di abitanti del ghetto si dirige verso Foggia per incontrare il prefetto. La manifestazione sfila per la città con cartelli che recitano «Vivere Ghetto». Chiedono di poter restare nelle proprie baracche, così da non perdere quei contatti lavorativi maturati negli anni: un privilegio che vale meno di 3 euro l’ora.
La notte tra il 2 e il 3 marzo un incendio distrugge parte del campo, quasi 5.000 mq di case di cartone carbonizzate. Al loro interno dormono alcuni migranti che, miracolosamente, riescono a fuggire, tranne due ragazzi. Si chiamavano Mamadou Konate e Nouhou Doumbia, avevano 33 e 36 anni e venivano entrambi dal Mali. Una delle due vittime, Konate, è stato trovato disteso su una brandina, carbonizzato. L’altro è stato trovato vicino l’uscita della baracca.
Non è la prima volta che le case di cartone del Ghetto vanno a fuoco. Questo, ad esempio, è il terzo incendio di grosse dimensioni che avviene solo nell’ultimo anno. Mai nessuno però era ancora morto durante questi episodi.
La procura di Foggia ha escluso la matrice dolosa, anche se per alcuni le cose non sono andate esattamente così: «L’incendio del ghetto di Rignano è doloso perché molti lavoratori non hanno gradito lo sgombero. E’ un gesto di protesta paradossale, da condannare perché nessuno ha il diritto di uccidere; ma resta un tragico gesto di protesta», dice Yvan Sagnet.
Secondo un vigile del fuoco che si trovava sul posto al momento dell’incendio «l’incendio è stato troppo violento e improvviso, e quindi non si esclude che possa essere stato appiccato da qualcuno».
Dopo aver riconosciuto i corpi dei propri compagni, gli ultimi abitanti del Ghetto hanno improvvisato un corteo funebre per scortare i feretri dei due ragazzi. «Non si può morire così, come i cani in gabbia» urla Mamadou alla stampa «noi chiediamo solo di lavorare in pace. Dove andremo ora?».
I carri funebri sfilano affianco a cumuli di immondizia bruciata che delimitano le porte del Ghetto. I migranti li lasciano andare soli nel loro viaggio verso l’obitorio e decidono di tornare indietro per potersi organizzare.
Dopo qualche ora accade l’impensabile: un altro incendio di grandi dimensioni distrugge e mortifica le ultime baracche rimaste in piedi. Si odono delle esplosioni, una macchina di un caporale va in fiamme e diverse bombole del gas esplodono pericolosamente tra le baracche. L’aria è irrespirabile. Il ghetto inizia a svuotarsi silenziosamente. Molte persone si dirigono attraversano gli uliveti, simbolo della puglia, con i materassi arrotolati sulla testa. Gli autobus sono pronti ad accoglierli per poterli portare in alcune strutture messe a disposizione della regione e dal comune di San Severo, che saranno attrezzate per accogliere temporaneamente 320 migranti.
Il presidente della Regione Michele Emiliano si dice soddisfatto della «chiusura di questo luogo dove per vent’anni si è calpestata la dignità umana», aggiungendo che «la tragica morte dei due cittadini maliani conferma la necessità di procedere senza indugio alla chiusura del campo, ma lascia un profondo sconforto perché se avessero accettato, come tanti hanno fatto, l’alternativa abitativa adesso sarebbero ancora vivi».
La giornata sta per finire, le fiamme hanno ormai lasciato spazio alla cenere ed al fumo. Il rumore delle ruspe copre ogni suono. Molti migranti non sanno dove andare, nessuno a quanto pare si è preoccupato di spiegare loro cosa stia succedendo: «non mi importa – dice un ragazzo - qualunque posto sarà meglio di questo».
«Purtroppo quanto accaduto ieri notte è soltanto l’ultimo episodio: i morti nei ghetti del foggiano sono già 4 negli ultimi mesi e sono una triste routine che si è consolidata nel corso degli anni. Solo in Puglia, tra grandi e piccoli, se ne contano oramai una trentina».
A parlare è Leonardo Palmisano, etnografo, docente di Sociologia Urbana al Politecnico di Bari ed autore del saggio «Ghetto Italia», scritto a quattro mani con Yvan Sagnet, con il quale hanno vinto il prestigioso premio Livatino 2016. Un lungo viaggio nei ghetti italiani, dal Piemonte alla Puglia, per denunciare come i braccianti immigrati in Italia siano sempre più spesso vittime di un caporalato feroce, che li rinchiude in veri e propri «ghetti a pagamento», in cui tutto ha un prezzo e niente è dato per scontato, nemmeno un medico in caso di bisogno.
Da fine febbraio è iniziato lo sgombero del «Gran Ghetto» di Rignano Garganico disposto dalla Dda di Bari, per presunte infiltrazioni nella gestione del luogo da parte della criminalità organizzata. Molti però si sono opposti, mentre la Regione fatica ancora a risolvere il problema di un alloggio dignitoso.
Forse qualcuno sarebbe dovuto andare a parlare con quelle persone. Non si può pensare di sgomberarle dall’oggi al domani, senza preavviso, dall’unico luogo che conoscono. Perché per loro il ghetto vuol dire lavoro e quindi sopravvivenza: solo restando lì sono certi che i caporali, durante la stagione del raccolto, li andranno a cercare per farli lavorare. E’ questo il motivo per cui oramai sono diventati stanziali nei ghetti, dove vivono tutto l’anno, anche in periodi in cui non c’è lavoro. Senza un’alternativa reale nei servizi e nel collocamento lavorativo, sgomberare non servirà a nulla.
Un lavoro che in realtà vuol dire sfruttamento, schiavitù in condizioni disumane. Come giudica la legge sul caporalato?
Le Regioni in materia di lavoro non possono legiferare, quindi è necessario l’intervento dello Stato. Quella legge è sicuramente un primo passo verso la legalità, ma non può restare l’unico. Piuttosto, credo sia giusto sottolineare la pressione che arriva dalle associazioni degli imprenditori agricoli contro quella legge, prima ancora che arrivino le denunce dei braccianti. Sto realizzando con grande difficoltà una nuova inchiesta su questo fronte. I braccianti sono terrorizzati ed è difficilissimo farli parlare, c’è un clima di grande tensione.
Il nocciolo della questione, come più volte ha denunciato Yvan Sagnet nel corso degli anni, resta la grande distribuzione e gli accordi commerciali che reggono il gioco.
E’ lì che bisogna intervenire. I grandi gruppi decidono il costo del prodotto che a sua volta, per effetto domino, incide sugli agricoltori ovvero i produttori ed infine sui lavoratori sfruttati dai caporali che sono da sempre l’anello di congiunzione tra domanda e offerta di lavoro. La vera battaglia ora si è spostata sui semi. Perché chi li possiede controllerà tutta la filiera.