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Massimo Giannini
La bandiera strappata del federalismo
14 Maggio 2010
Articoli del 2010
Dietro la menzogna del federalismo demaniale, un paese con economia a rischio e sovranità limitata. Da la Repubblica, 14 maggio 2010 (m.p.g.)

Il parziale sblocco del cosiddetto federalismo demaniale non deve ingannare. L’avvio del censimento dei beni pubblici da "devolvere" alle autonomie locali è poco più che un passo nel vuoto del mitico "federalismo italiano". Il più drammatico "effetto collaterale" della tragedia greca che ha sconvolto i mercati, infatti, riguarda proprio il federalismo fiscale.

Nel governo berlusconiano e nella maggioranza forzaleghista nessuno ha il coraggio di dirlo pubblicamente, al Paese e al Parlamento. Ma è ora di chiarire l’equivoco. Il federalismo fiscale non si fa più. E’ ormai fuori dall’agenda della legislatura. Il vessillo della Lega, l’obiettivo mistico vagheggiato da Bossi fin dai tempi dell’ampolla pagana sul Dio Po, sventola ormai solo nelle adunate padane del Carroccio. Ma non sventola più sui palazzi romani, da Palazzo Chigi a Via XX Settembre.

Anche se non lo confessa, perché non può farlo per evidenti ragioni politiche, quella bandiera l’ha ammainata Giulio Tremonti per ragioni economiche. Costretto dal collasso della Grecia e dall’attacco della speculazione contro la moneta unica e i debiti sovrani di Eurolandia. Il ministro del Tesoro deve alzare le mani. Per il federalismo fiscale non c’è un euro a disposizione. Dopo mesi di silenzi e di equivoci sul costo effettivo dell’operazione, è ormai chiaro a tutti che non ci sono le risorse necessarie per farla decollare. Fatta la legge delega, una scatola vuota costruita solo per accontentare la Lega, ora non c’è niente da mettere dentro i decreti delegati.

C’è un vincolo "interno", che pesa come un macigno. E’ il debito degli enti locali sul versante sanitario, che a legislazione vigente impone ad almeno quattro regioni (Lazio, Campania, Calabria e Molise) di ripianarlo a colpi di inasprimenti fiscali. Ed è, più in generale, il costo stimato del federalismo tanto caro al Senatur. L’ultima stima, aggiornata sui bilanci delle regioni nel 2008, l’ha fornita la Commissione tecnica paritetica per il federalismo, nel rapporto curato da Luca Antonini e appena depositato in Parlamento. E’ una cifra scioccante: per assicurare il passaggio al federalismo nelle materie strategiche (cioè sanità, istruzione e assistenza sociale) occorrerebbero quasi 133 miliardi di euro calcolati in termini di spesa storica (caratterizzata da sprechi, iniquità e inefficienze di ogni genere). La riforma federale, com’è noto, ruota intorno al principio dei "costi standard" delle prestazioni, cioè quelli considerati ottimali secondo i livelli dei servizi raggiunti dalle regioni più efficienti. Ebbene, anche a voler dimezzare l’esborso necessario, nel passaggio dalla spesa storica a quella standard, il federalismo fiscale costerebbe allo Stato non meno di 60 miliardi. Dove può trovarli, il pur fantasioso Tremonti, dentro un bilancio pubblico in cui non c´è un centesimo neanche per finanziare uno 0,1 per cento di sgravi dell’Irpef sulle famiglie meno abbienti?

Ma c´è soprattutto un vincolo "esterno", che è tornato più che mai a gravare sulle antiche disinvolture contabili del Paese. C’è un prestito ad Atene da 5,5 miliardi, da approvare nei prossimi giorni. C’è una manovra aggiuntiva in agguato, tra l’estate e l’autunno, che porterà l’insieme delle misure di contenimento del deficit e del debito a sfiorare i 30 miliardi. E c’è un’Europa in questo momento a forte impronta tedesca, ben rappresentata dalla Commissione europea e dalla Bce, che in cambio del colossale piano di aiuti per difendere i debiti sovrani esige cure draconiane dagli stati membri più esposti. L’Italia è tra questi, nonostante le chiacchiere consolatorie del governo. Quando in una "normale" giornata sui mercati finanziari gli speculatori "puniscono" la Borsa di Milano e quella di Madrid, mentre premiano quella di Francoforte, c’è con tutta evidenza un giudizio di merito che non riguarda solo l’alta esposizione debitoria di uno Stato, ma l’inadeguatezza competitiva di un intero Sistema-Paese. E quando a Bruxelles nasce un "superpotere" che impone ai singoli governi di anticipare alla prima parte dell’anno i programmi di stabilità e irroga sanzioni più severe ai paesi che sforano, fino ad imporgli un deposito cauzionale "in caso di politiche di bilancio inadeguate", allora è evidente che l’Italia non ha più alcun margine di autonomia.

Siamo a tutti gli effetti un Paese "a sovranità limitata". Per questo, nonostante gli artifici verbali del "mago dei numeri" che abita al ministero dell’Economia, non ci sono e non ci saranno i soldi per il federalismo fiscale. Sarebbe il caso di ammetterlo, con grande onestà e assoluta chiarezza. Ma le conseguenze politiche di questo riconoscimento sono devastanti. Chi può assumersi questo compito immane? Nessuno ha il coraggio, tra Berlusconi, Bossi e Fini, che "Economist" in uscita oggi definisce sprezzantemente "The three Stooges", i "Tre marmittoni", riprendendo una vecchia serie televisiva americana degli anni ‘40. «L’effetto della decentralizzazione federale – scrive persino il settimanale inglese – sarà quello di aumentare la spesa, non certo di ridurla».

Per questo, dichiarare apertamente di fronte ai cittadini e alle Camere che il federalismo fiscale salta, significa proclamare sostanzialmente finita l’attuale maggioranza e virtualmente conclusa la presente legislatura. Nelle condizioni attuali, interne e internazionali, tutto questo può avere due sbocchi. Uno porta dritto alle elezioni anticipate. Bossi e i suoi ministri, a Roma, non possono incassare la sconfitta sul federalismo, senza pagare un pegno elevatissimo nelle valli padane dove hanno trionfato grazie a quel feticcio verde sospeso tra politica e mitologia. Dunque la Lega, se con il federalismo perdesse la sua "ragione sociale", aprirebbe subito la crisi e punterebbe al voto anticipato. Anche Berlusconi, a sua volta inguaiato dagli scandali nel Pdl e imbrigliato dai Poteri Forti delle tecnocrazie europee, sarebbe pronto a cavalcare la rabbia leghista, e a tornare alle urne. Ci sarebbe già una data, secondo i bene informati: marzo 2011.

Ma c’è una variante, ed è proprio l’Europa. Con questa crisi rovinosa, e con il fucile puntato della speculazione sul mercato dei titoli di Stato, non c’è spazio per elezioni anticipate. Sarebbero un suicidio, che il Paese rischierebbe di pagare con la bancarotta. Il presidente della Repubblica non scioglierebbe mai le Camere, e un governo di salute pubblica, magari con Mario Draghi premier, otterrebbe davvero una maggioranza "in dieci minuti", come disse Casini qualche mese fa. Per questo, alla fine, lo sbocco più probabile di questa situazione porta a una crisi di fatto, anche se non di diritto. Ad un impasse totale: né elezioni anticipate, né riforme. Il nulla, cioè. Un governo di pura sopravvivenza, sotto tutela e praticamente "commissariato" da Bruxelles, che per i prossimi tre anni si limita a non fare e a non spendere, per non dover poi portare i libri in tribunale. E’ il peggiore degli incubi. Non solo per Berlusconi che ormai, comunque vada, si avvicina al capolinea. Ma per tutti gli italiani che aspettano più lavoro, più crescita, meno sprechi e meno tasse.

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