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Marc Lazar
La bandiera ammainata dell’Unità d’Italia
28 Luglio 2009
Articoli del 2009
150 anni dopo, è ancora vero che “l’Italia è una nazione difficile”. Una riflessione sulle celebrazioni del passato recente. La Repubblica, 28 luglio 2009

A due anni dalla commemorazione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, le polemiche sono già incominciate. A denunciare il silenzio del governo su questa ricorrenza sono stati alcuni membri del Comitato per le celebrazioni, e il suo presidente, Carlo Azeglio Ciampi, ha minacciato addirittura di dimettersi. Sul Corriere del 20 luglio, Ernesto Galli della Loggia ha fustigato una classe politica che ha dell’Italia «un’immagine a brandelli, di fatto inesistente», suscitando reazioni molteplici. In verità, si tratta di controversie gravide di significati, a dimostrare – se ancora ve ne fosse bisogno – che come ha detto Giuseppe Galasso, l’Italia è una nazione difficile. Non può dunque sorprendere che le celebrazioni per la ricorrenza della sua formazione appaiano alquanto problematiche.

Nel 1911 gli organizzatori del cinquantenario dell’Unità vollero dimostrare agli italiani, ma anche all’Europa e al resto del mondo, che l’Italia era davvero unita, e si presentava oramai come un grande Paese in pieno sviluppo, con dichiarate ambizioni internazionali. L’anno 1911 segnò una tappa nell’affermazione dell’Unità nazionale intorno alla monarchia, ma registrò al tempo stesso l’affermazione crescente del nazionalismo italiano.

Il centesimo anniversario della Repubblica fu celebrato fin dal 1959, con manifestazioni ripartite su tre anni, per commemorare la seconda guerra d’indipendenza del 1859, la spedizione dei Mille del 1860 e la proclamazione del Regno d’Italia del 1861. Le iniziative di maggior rilievo ebbero luogo in quest’ultimo anno, in particolare con l’Esposizione internazionale «Italia ‘61», concepita per onorare i padri della Patria e celebrare i successi di un Paese in pieno miracolo economico, il cui tenore di vita progrediva rapidamente, suscitando un indubitabile ottimismo. Ma le iniziative ufficiali venivano recepite solo limitatamente, tranne nei casi in cui si associavano a comme- morazioni della prima guerra mondiale e della Resistenza. Pur non ignorando la nazione, la Repubblica nata nel segno dell’antifascismo stenta a rivendicarla e a darne una definizione precisa, dopo l’uso che ne avevano fatto Mussolini e il suo partito. Inoltre, la costruzione europea è considerata come una priorità. Perciò il 1961 non dà luogo ad eccessi, né in un senso né nell’altro. Poiché si rivela sinonimo di miglioramento delle condizioni di vita, la Nazione è ben vista dagli italiani, ma non riveste un significato politico di grande rilievo. Così, una volta passata la data dell’anniversario, si torna a una forma di indifferenza nei riguardi della nazione, sempre più confinata alla sua dimensione di patrimonio culturale.

Qual è ora il contesto in cui si prepara il 150° anniversario dell’unità d’Italia? Da quasi due decenni questo Paese è scosso da un duplice processo, complementare e antagonistico. Da un lato si ripropongono gli interrogativi sul significato da dare a ciò che l’Italia rappresenta come nazione, mentre dall’altro si sta facendo strada una domanda proteiforme di nazione. Gli interrogativi nascono peraltro da fenomeni che interessano molti Paesi europei. Innanzitutto, la crescente europeizzazione, e la conseguente rinuncia a interi settori della sovranità nazionale. In secondo luogo, la globalizzazione dell’economia, dei rapporti sociali, della cultura e della vita quotidiana, che restringe gli spazi possibili della nazione. Infine, la reazione a questi due elementi porta ad accentuare la ricerca identitaria nell’ambito della prossimità: un fenomeno che spiega le crescenti rivendicazioni locali e regionali quasi ovunque in Europa. In Italia, la questione della nazione è inoltre acutizzata da due fattori specifici: l’ascesa della Lega Nord, che almeno in un primo tempo proclamava una volontà secessionista, provocando reazioni diametralmente opposte di difesa dell’integrità della Penisola; e lo shock migratorio, dovuto all’arrivo massiccio e pressoché improvviso di popolazioni straniere, con tutto il coacervo di problemi che ne derivano. Tutto ciò ha rilanciato un gran numero di interrogativi, in buona parte anche tradizionali. Su cosa si fonda la nazione? Su un passato comune, su valori comuni? E in questo caso quali: della Costituzione, della Chiesa, o altri ancora da ripensare? Un modo di essere? Un insieme di prassi identificabili? Si sono organizzati numerosi colloqui e trasmissioni radiofoniche o televisive, e sono usciti vari libri – ad esempio «Se cessiamo di essere una nazione» di Gian Enrico Rusconi (1993), o «La morte della Patria» di Galli della Loggia (1996) – che hanno suscitato a volte vivaci dibattiti.

D’altra parte, in Italia sta progressivamente emergendo una domanda di nazione, tanto maggiore quanto più aumenta la distanza dall’esperienza storica del fascismo. La modernizzazione accelerata del dopoguerra ha accentuato l’unificazione già intrapresa – in senso sia geografico che materiale, linguistico e culturale – della penisola. Dagli Anni ‘90 in poi, l’Italia non esiste più solo in occasione delle partite di calcio giocate dagli Azzurri. L’identità nazionale si traduce in una sensibilità a fior di pelle nei riguardi degli altri, delle emozioni collettive condivise, e nella coscienza di un «noi» italiano. A quanto emerge dai sondaggi, è in aumento anche la fierezza dell’italianità, identificata innanzitutto con l’«arte di arrangiarsi». E c’è un fatto nuovo, che non si registrava dal 1945: la politica tenta di rispondere a quest’aspirazione. È con chiara intenzione simbolica che Silvio Berlusconi crea Forza Italia, e Gianfranco Fini lancia Alleanza Nazionale. Su un registro diverso, il Presidente Ciampi riafferma con le parole e con gli atti le virtù politiche e civiche della nazione italiana. Ma tutto questo sembra scontrarsi con certi limiti. Come ha dimostrato Ilvo Diamanti (su Repubblica del 26 luglio) si sta nuovamente rafforzando la diffidenza tra italiani del Nord e del Sud.

La commemorazione del 2011 fa dunque sorgere un interrogativo: l’Italia è in grado di proporre una narrativa comune, la rivendicazione di un passato a un tempo unitario e plurale, contrassegnato da invarianti, ma anche da lacerazioni? Un vivere insieme nel presente, non ripiegato su se stesso ma aperto e capace di integrare, in vista del progetto di un futuro comune? Se non saprà cogliere questa ricorrenza del 2011, l’Italia perderà un’occasione per costruire una nazione non illusoriamente nostalgica, ma adeguata al nostro tempo, capace di arricchire l’Europa e il mondo della sua storia e della sua cultura, certo, ma anche dei suoi valori.

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