La fattoria dell’Europa porta al mercato il suo ultimo prodotto: i suicidi. Tra Cremona, Brescia, Mantova e Reggio nell’Emilia, in due anni, sono aumentati del 32 per cento. Disprezzata e infine ignorata, corrosa dalle crisi, l’agricoltura italiana espelle la scoria estrema: gli uomini. La condanna si consuma mentre la domanda di cibo, ed i prezzi, esplodono. Troppo tardi. Nelle cascine si cercano braccia, ma non ci sono più nemmeno le teste. I vecchi tornano con gli occhi agli anni Cinquanta, spartiacque tragico della fuga dalle campagne. Il granista Doriano Zanchi, 36 anni, è stato trovato nella corte due giorni fa. Ha avviato il trattore. Poi si è seduto davanti, contro il porticato. Nelle golene, lungo il Po, sono i pioppi a proteggere chi, ricontrollato l’estratto conto, si affida a certi rami leggeri. Un invisibile, drammatico passaggio storico sta spazzando via chi si è ostinato ad aggrapparsi alla terra: la contro-rivoluzione dell’agricoltura virtuale, fondata su aziende senza contadini e su prodotti senza valore. Se anche la Baviera italiana liquida silenziosamente la sua anima, significa che il processo è irreversibile. Egidio Franzoni cammina tra i meloni che la pioggia fa maturare attorno a Goito. A chi appartiene questo campo? Nessuno lo sa. Fino a tre anni fa era dei cugini. Tradizione secolare. Adesso una società rimanda all’altra. Si dividono le quote i fornitori di semi e di concimi, il grossista e l’industriale, la banca mantovana acquistata da Siena. Anche Marco Stazzini, sotto Dosolo, ignora il nome del padrone della sua stalla, appoggiata tra seicento biolche di frumenti. Sei mesi fa l’istituto di credito l’ha ceduta ad una finanziaria. Ora è il contoterzista a fornire macchine, stallieri indiani e braccianti marocchini. Le 200 vacche olandesi arrivano dalla multinazionale che gli vende i mangimi. Il brooker gli comunica la sigla del grossista, il direttore commerciale della grande distribuzione fissa il prezzo del latte. All’allevatore mantovano, soffocato dall’ennesima impennata dai costi, restano l’ipoteca sulla terra e il governo delle bestie: mungitura alle 4, smaltimento del liquame alle 22. Un finto proprietario alle dipendenze di un padrone ignoto. «Il Paese - dice lo storico dell’economia Marzio Romani - sta perdendo il controllo dell’agricoltura. è un problema enorme, anche di democrazia». Se il cibo è la fonte di energia essenziale, il confronto con la psicosi atomica e petrolifera appare ridicolo. Lombardia ed Emilia, squassate dal cortocircuito borsistico di cereali e combustibili, sono prigioniere degli scioperi del latte e del maiale, che stanno sconvolgendo l’Europa. Migliaia di contadini, in balìa delle speculazioni finanziarie, oscillano tra le decine di «Farmer Market» settimanali e i cinque «signori» che decidono quanto vale un chilo di carne. Seguire il viaggio di una bistecca significa penetrare nel buio che, salendo dalle campagne, inghiotte la civiltà metropolitana del micro-onde. Lo hanno fatto due fratelli di Asola. Uno choc. Sette padroni, prima che una fettina in sette mesi passi dalla stalla al piatto. L’allevatore che fa nascere il vitello in Danimarca. Il mediatore tedesco che lo vende ad un produttore di Suzzara. Il macellaio della «Unipeg» di Pegognaga che lo fornisce al direttore acquisti dell «Cremonini». Il commesso di Auchan che lo vende alla professoressa di Gonzaga. «Nessun bene al mondo - dice Cristian Odini, agricoltore di San Prospero - fa tanti passaggi in così poco tempo. Tutti devono guadagnare, lo scarto è del 30%». Esplode il prezzo al consumo, crolla quello all’origine. è qualcosa di più profondo della nostalgia e del paesaggio, di più sostanziale del libero mercato e del potere dei fondi americani. Andrea Biagi, a Roverbella, coltiva fragole. Trenta centesimi al cestino, fino al maggio 2007. Ha allargato le serre, trent’anni di vita sulla lama del mutuo. «Da tre mesi - dice - siamo sommersi da navi di fragole salpate da Grecia, Spagna e Africa. Dieci centesimi a vaschetta. O vendo direttamente, o chiudo». è così che il contadino, beffato dalla politica debole che nasce e muore in ufficio, scompare dalla società. «Per avviare dal nulla una fattoria media - dice Antonio Negro, patriarca degli allevatori di Formigosa - servono tra i 2 i 3 milioni di euro. Le banche ti stritolano, un crimine legalizzato: ti aprono l’ombrello se c’è il sole, te lo chiudono quando piove. Se uno è bravo, dopo una vita di sacrifici, ricava 1300 euro netti al mese. Laurearsi costa meno e rende di più: nessun giovane capace può restare nei campi». Un cortocircuito di civiltà: in Meridione, negli ultimi dieci anni, lo spopolamento agricolo ha travolto quota 56%. A suonare è la campana di un incubo: la qualità dei prodotti italiani ignorata dal mercato globale che pretende quantità. «Ci hanno costretto a ingrandirci - dice Mario Caleffi, coltivatore di mais a Commessaggio - a investire sulla competitività, a produrre sempre di più, a puntare tutto sulla qualità. Ma la gente non ha più soldi per pagare la qualità del cibo sano. Se ne frega: chi è grande chiude, chi ha tagliato i dipendenti cade in pugno ai terzisti, i terreni esausti impongono sempre più concimi chimici, la grande distribuzione paga prosciutti di Parma e grana padano come salumi e formaggi importati dalla Romania». Se fino ad oggi è stato il «cambiamento» a segnare la storia delle campagne, nella Borsa agricola di Mantova il giovedì mattina ora si pronuncia, a voce bassa, la parola «estinzione». Il pomeriggio, a Bologna, ci si spinge oltre: fino a riflettere, partendo dall’epocale crollo del prezzo dei maiali, sul significato della domanda di «territorio» che sgorga dal Nord. «Governi e organizzazioni internazionali - dice lo storico dell’agricoltura Eugenio Camerlenghi - non controllano più la produzione alimentare. Da servo della gleba, l’agricoltore è diventato schiavo della «globa». Decisiva è la riduzione della libertà di usare lo spazio: piazze, fiumi, campagna». Si nasconde qui, nella decimazione della società contadina, l’ossessione locale che impone di odiare Roma, Bruxelles, l’America e la Cina. Sfrattata dalla terra, espulsa dal territorio, la gente si tuffa nella territorialità. I nuovi orfani sociali, costretti a regalare latte e ad estirpare barbabietole, chiedono protezione ai profeti della xenofobia. «In dieci anni - dice il mantovano Roberto Borroni, presidente di Agrisviluppo - i parlamentari espressi dagli agricoltori sono passati a 90 a 2. La politica li ignora, i sindacati di categoria conservano l’ideologia contrapposta della Guerra Fredda. I contadini sono più divisi e disorientati che mai: erano la civiltà dell’equilibrio, presto saranno la leva di una rivoluzione». Possibile, proprio adesso? Sono dieci mesi che, secondo i listini, il misterioso boom dei cereali trascina le rendite agrarie. India e Cina mangiano di più e lavorano di meno, gli speculatori affittano e riempiono magazzini clandestini, gli Usa fanno la guerra energetica alla Russia parlando di biodiesel. Perché, se il valore aggiunto cresce del 7%, nelle cascine cova la rivolta? Nessuno che infili un paio di buone scarpe coi lacci e si perda tra manze e onde di erba medica. Di notte, tra Castiglione e Luzzara, le piste arginali sono intasate di cisterne. Si vive di contributi Ue anche nella pianura padana: ma le bestemmie sono tutte contro l’Europa. Autisti clandestini versano nei fossi montagne di letame e oceani di urina. «Bevevamo dai ruscelli - dice Luigina Mattioli, maestra di salami - ora ci si ammala a guardarli». Leggi incomprensibili, quanto sacrosante, costringono ad affittare terreni per smaltire i liquami, di un sorprendente odore chimico. Poche cose, come gli odori, fanno pensare. Plichi di altre norme proibitive, come recinti alti 2 metri e mezzo o luce elettrica nei fienili, suggeriscono di risparmiare scaricando tutto nel canale più vicino. La lezione delle quote-latte, termine di rottura del mondo agricolo, non è stata compresa. La finzione a pagamento su Ogm e Bio, mina anche l’ultima fiducia. «Ogni posto vacca - dice Elisabetta Poloni, presidente della Cia mantovana - arriva a costare 6 mila euro. L’Italia, a Bruxelles, conta meno della Lituania. Gli uffici Ue governano il 99% dell’agricoltura: non abbiamo nemmeno tecnici capaci di tradurre le direttive. A trattare ci presentiamo in venti: gli altri Paesi ne mandano uno». Una nazione attenta, reduce dalla spaventosa stagionalità perenne riprodotta nei supermercati, cercherebbe di capire perché, lo stesso pezzo di formaggio, oscilla tra 6 e 13 euro al chilo a seconda delle ore. Perché il grano duro è salito da 190 a 500 euro a tonnellata in tre giorni. Perché il riso è sparito. Perché un litro di latte costa 37 centesimi e viene venduto a 160. Perché un anno fa il siero veniva regalato, poi è stato quotato e oggi si torna a consegnare gratis. Perché i pollai del Veronese, in tre anni, sono caduti nelle mani di banche e industrie che forniscono pulcini, lampade a raggi infrarossi e mangime. è bastata una nave di soia americana, ferma nel porto di Ravenna, a far saltare tre contadini di Reggiolo. «La protesta che devasta l’Italia - dice Benedetto Orsini, proprietario di un’azienda modello a Castel d’Ario - affonda nel tradimento della campagna. L’assalto ai campi nomadi e ai centri di raccolta dei clandestini, il rifiuto politico dell’Europa, sono il precipitato di un abbandono sociale senza precedenti. Fattorie, paesi, periferie e città di storia agricola, consegnate a euroburocrati corrotti e finanzieri senza volto che operano dai paradisi fiscali. L’euro è un pretesto: a Roma non si capisce che la rabbia di chi produce cibo si sta saldando con l’odio di chi lo consuma». Le sera i campi di pannocchie, a Sabbioneta, ricordano i parchi pubblici. Ex contadini, finiti a fare i gelatai e i centralinisti, cercano la vita perduta nelle corti abbandonate dell’infanzia. Dimezzati in dodici anni. Ridotta ad un terzo la superficie coltivata. «Sembra che il problema - dice Fabio Spazzini, orticoltore di Guidizzolo - sia proteggere la diversità dei prodotti tipici. Si parla di marchi, mentre il cambiamento è radicale: la possibilità di coltivare torna nelle mani di pochissime dinastie estranee all’agricoltura. L’energia alimentare è la nuova arma di scambio nella lotta per il potere globale». Emilia, Lombardia e Veneto, regno degli ex metalmezzadri salvati dai consorzi, naufragano tra i profitti dell’onnipotente grande distribuzione. Il rigoglioso ceto dei capitalisti un mutande, prigionieri della terra perduta, sconvolge così il proprio profilo. Aprono agritur, fondano mercati contadini, piantano distributori di latte crudo, spacciano culatelli, inaugurano fattorie didattiche, organizzano spettacoli nelle aie. è il dramma negato di un Paese che finge di investire su salute, natura e alimenti genuini: i contadini cacciati dai campi e ridotti a sovvenzionati giardinieri, cuochi, venditori ambulanti, attori e locandieri. «Qui vivevano - dice Ferdinando Boccalari, erede della meravigliosa Corte Virgiliana di Andes - 150 persone. Un paese, pieno di bambini. Si fermavano papi e regine. Oggi, con 200 ettari coltivati e 550 animali, stentiamo in tre famiglie. Vendita diretta e multifunzionalità non sono una scelta per guadagnare di più: contribuiscono a limitare i debiti a fine mese. Migliaia di coltivatori e di allevatori dipendono dal cartello di un pugno di industrie, che impongono la dieta a milioni di persone. L’agricoltura italiana sta fallendo e nessuno alza un dito». Nelle trattorie della Bassa mantovana e del Reggiano, protetti da qualche sorso di lambrusco, i vecchi riconoscono di aver commesso molti errori: i veleni, il saccheggio del territorio, la monocoltura, le truffe sui contributi, la divisione ideologica e sindacale. L’illusione che il villano potesse mangiare più bollito del vescovo. Colpe però insufficienti a giustificare un Paese mediterraneo costretto a importare il 65% del fabbisogno alimentare, con scorte di tre giorni e un rincaro del cibo del 7,3% in un anno. è allora importante che a Villastrada, mentre partiti e televisione si affannano attorno alle nozze di Briatore e ai soldati mimetizzati nelle aiole di Milano, si ricominci a parlare di lumache, zucche, rane, meloni. Il mugnaio Romolo Perteghella dice che la terra, se ospita varie specie, riesce a tenere a bada da sé i parassiti. Alex Odini, giovane agrotecnico, dice che con altre dieci vacche potrà recuperare un campo per l’orzo. Giorgio Zombini, miscelatore di mangime, dice ha il patto di fiducia tra «produttore e consumatore» può essere recuperato. Giulio Sereni, potenza dei maiali che si ostina a chiamare suini, promette di denunciare i consorzi che vendono «salumi freschi italiani» con bestie surgelate e importate dalla Cina. Può essere che le confuse discussioni da stalla, la minaccia di presìdi e scioperi, servano ad esorcizzare la paura di aver consumato un ruolo. La sensazione però è che solo da qui, dalla riappropriazione della sua semplice e periferica identità colonica, il Paese possa attingere le risorse civili per costruire una società meno precaria. A Suzzara è sabato mattina e sul mercato contadino piove. Si vendono le prime pere mirandoline, piccole pesche di orto, latte fresco senza certificati, coste e catalogna, ciliegie della Ferrovia, formaggio di trenta mesi, qualche gallina e pochi pani di burro giallo. Prezzi da anni Settanta. I coltivatori parlano della fine di un «fiol put»: ieri sera un altro allevatore, stritolato dal mutuo sui prati per conservare cento vacche, si è buttato nella porcilaia. Sembrano rivoluzionari, partigiani di una nuova resistenza, cospiratori impegnati nel far cadere un regime. Non è il caso di sorridere, forse, con la nota sufficienza.