«Quando la megalopoli sta in uno smartphone. Con una spesa di 40mila dollari hanno ridotto il traffico del sedici per cento in due anni». Continuano a proporre aspirine quando occorrono amputazioni, o maquillages quando servono pesanti ristrutturazioni. La Repubblica, 4 settembre 2016
Siede in un ufficio spoglio ai piani alti del City Hall, il municipio di Los Angeles. Di futuribile ha poco questo palazzo bianco del 1928, con al centro una torre che vorrebbe ricordare il mausoleo di Alicarnasso. Pesanti ascensori in legno con pulsantiere in ottone consumato, corridoi polverosi, vecchie scrivanie in ferro. E un primato in altezza, i suoi 138 metri, che gli fu rubato negli anni Sessanta.
Eppure per guardare il nuovo volto della città bisogna venire qui e parlare con Peter Marx. Cresciuto nel quartiere Parioli di Roma, il padre lavorava a Cinecittà, lo avevamo incontrato due anni fa quando era appena stato nominato chief technology officer della città di Los Angeles dal sindaco democratico Eric Garcetti. Carica propria di aziende private e non certo di un ente territoriale.
Lui è stato fra i primi. Subito dopo altre metropoli hanno iniziato a fare la stessa cosa, da Amsterdam a New York. Marx ha subito sposato la causa degli open data e messo online tutto quel che di digitale raccoglievano i vari dipartimenti. Oltre alla coordinazione fra i diversi uffici, da quel momento per i vigili del fuoco è stato molto più semplice sapere dove stavano intervenendo quelli del dipartimento dell’energia elettrica, la speranza era che qualcuno avrebbe usato le informazioni per creare servizi. Qualcuno proveniente dal privato.
«Cosa è successo da allora? Che abbiamo speso appena quarantamila dollari», esordisce lui. «Quello che ricordo di Roma è il traffico. Ed è la stessa cosa che si potrebbe dire di Los Angeles. Ma quando vivevo a Roma, da piccolo, non esistevano gli smartphone. Le faccio un esempio: qui Waze è usata da due milioni di persone su quattro milioni di abitanti.
Lo schermo del telefono è la nuova interfaccia della metropoli. Il sistema di trasporto è computerizzato, gli autobus hanno il gps e della metropolitana sappiamo esattamente dove si trova in tempo reale. Sappiamo anche dove ci sono lavori in corso, dove sta intervenendo la polizia, dove c’è una perdita nella rete idrica. Ma la segnaletica tradizionale è statica, immobile. Ogni eccezione all’ordinario richiede che venga portata quella mobile. Ed è inefficace: non avvisa chi sta partendo da casa che in un certo tratto ci sarà un rallentamento. Ci sono solo i semafori che cambiano colore. Quel che abbiamo fatto è stato dare a chi realizza le app ogni tipo di informazione: quali strade sono bloccate e quali hanno lavori in corso, orari delle scuole, percorrenza dei bus, tempi della metropolitana e dei treni».
Di fatto una nuova forma di segnaletica, personalizzabile e dinamica che arriva ai cittadini sull’unico apparecchio hi-tech che hanno di sicuro, lo smartphone, e che permette di ridurre i tempi di percorrenza dal 15 al 40 per cento secondo i casi. E di conseguenza anche l’inquinamento. Marx per certi versi è stato fortunato, per questo ha speso così poco. Los Angeles dal 1984, quando accolse i giochi olimpici, ha un sistema di gestione degli incroci. Serviva a sincronizzare fra loro i semafori. Nel tempo all’Automated Traffic Surveillance and Control (Atsac) sono stati aggiunti quarantamila sensori sparsi per la città, cinquecento videocamere, quattromila cinquecento semafori. «Tutto integrato», spiega lui. «Compresa una serie di semafori dedicati ai cavalli. Già, abbiamo anche quelli in alcune aree. Del resto questo è pur sempre il West».
E non si tratta solo del traffico della automobili private. Dai porti di Los Angeles passano merci con un valore pari a circa il 40 per cento dell’economia statunitense. È un flusso enorme e costante che investe le strade, le ferrovie e la rete di magazzini. Ma il tassello più importante di Atsac, ora, sono quei due milioni di persone che grazie al loro telefono diventano dei sensori. Di qui una infrastruttura pubblica collegata a un ecosistema privato che produce informazioni accurate in tempo reale attraverso delle app. E, a loro volta, le app comunicano al comune i dati dei propri utenti in forma anonima.
«Abbiamo iniziato a usare tecnologie predittive — prosegue Marx — per avvertire in base alle informazioni raccolte nel corso di questi due anni se un certo giorno si prevedono code e dove si verificheranno». Lo fanno anche in altri campi, quello dello streaming musicale, tanto per citarne uno, dove riescono a prevedere il successo di un brano analizzando come le hit del passato si sono diffuse.
«C’è chi crede che il problema del traffico si risolva costruendo nuove strade», conclude Peter Marx, «ma è come mettersi a dieta ascoltando il proprio stomaco. Il traffico cresce in quei casi, senza contare costo e tempi per ampliare le strade. A un certo punto si tocca il limite: aumentare la capacità non risolve mai il problema di congestione di un network». Marx e Garcetti operano però in una città americana. E le multinazionali che producono app per la navigazione sono tutte americane. Compresa Waze, di Google dal 2013. In una metropoli europea un’operazione del genere richiederebbe un po’ più di cautela.