Nella prima e nella seconda giornata della scuola di eddyburg abbiamo affrontato, da un punto di vista teorico e storico, le nozioni fondamentali relative alla rendita urbana, focalizzando le conseguenze negative del rapporto degenerato tra i percettori delle rendite e i decisori pubblici. Nella terza giornata proviamo a sviluppare in positivo il ragionamento, a partire da due domande:
- quali strumenti consentono di “contrastare la rendita”, così come scritto nel titolo della scuola?
- verso quali obiettivi e finalità concrete (quale tipo di città) possiamo orientare le trasformazioni urbanistiche, se ci liberiamo del peso eccessivo della rendita?
Per provare a rispondere, riprendiamo alcune indicazioni emerse nella prima giornata.
Salzano e Camagni hanno spiegato i modi in cui si forma la rendita urbana e come essa, negli ultimi 20 anni, si sia trasformata, accresciuta e redistribuita (in quel circolo perverso che ha determinato la “bolla immobiliare”); questa mutazione ha rinsaldato il blocco edilizio rendendo assai problematica la separazione tra profitto capitalistico e rendita, sia per la coincidenza dei soggetti (gli stessi soggetti che producono beni investono nel mattone), sia per l’amplissima base proprietaria che alimenta questo meccanismo (un mondo di piccoli proprietari sostiene sulle proprie spalle, senza rendersene conto, il gigante economico).
Le politiche economiche nazionali incidono sui meccanismi di redistribuzione del sovrappiù che si realizza sul territorio e sulle possibilità di destinarlo ad investimenti duraturi. Una parte dei problemi attiene a questioni direttamente pertinenti al nostro ambito di intervento ed è su queste ultime che ci vogliamo concentrare.
Molto schematicamente, possiamo focalizzare il nostro ragionameno su tre punti:
a. le decisioni e gli interventi sulla città producono rendita ; quest’ultima è ineliminabile nell’attuale sistema economico sociale, ma non incomprimibile; proprio perché consapevoli di questo, abbiamo una grande responsabilità con i piani urbanistici; questi ultimi possono essere concepiti come strumento per produrre rendita (o, più precisamente, investimenti immobiliari), oppure come strumento per rispondere ad una domanda sociale; la differenza non è (solo) etica, ma attiene alle conseguenze sulla qualità della città, della società e dell’economia. A Bagnoli le scelte del PRG (basso indice di edificabilità e consistenti opere pubbliche) hanno determinato un ‘riposizionamento’ verso il basso dei valori immobiliari dell’area nei libri contabili della proprietà. Il minusvalore registrato coincide con la quota di rendita ritenuta inessenziale o dannosa per la collettività. Il caso di Milano è, per ragioni opposte, altrettanto emblematico. Il nuovo piano è palesemente inadeguato a fornire risposte a domanda sociale, ma perfettamente congegnato per produrre rendita: generano metri cubi le aree verdi del parco sud, si prevedono densità elevate all'interno della città (anche sulle aree pubbliche dismesse), è consentita una massima flessibilità per le destinazioni d’uso, come se fossero interscambiabili. In che modo il piano interagisce con la domanda di spazi, effettiva o drogata dalle aspettative che si formano al momento stesso delle decisioni di piano? A quali segmenti intende dare risposta, con quali obiettivi, in termini di ricadute sociali ed economiche? Quale "filosofia" esprime? Se il piano è lo strumento attraverso il quale rendere pubblico questo bilancio tra domanda e offerta, affinché sia verificato e valutato dai cittadini per essere poi assunto dall’amministrazione, ci rendiamo conto dell’importanza che assumono le scelte urbanistiche.
b. Di questa deriva non sono unici responsabili gli enti locali male amministrati: in nome della scarsità di risorse pubbliche, le politiche statali giustificano e incentivano la svendita del territorio e la consegna agli immobiliaristi di decisioni che spetterebbero agli enti locali e allo stato. Con ciò alimentando la rendita e la forza degli immobiliaristi, anziché contrastarle, e - conseguentemente - producendo una città più ingiusta e più brutta. Affinché si possano sviluppare le politiche urbanistiche che riteniamo virtuose (ambientalmente, socialmente ed economicamente) occorre pretendere – a scala nazionale e regionale – modifiche alle leggi e alle politiche di finanza, affinché sia ricostituito un quadro accettabile nel quale le amministrazioni locali possano muoversi. L’esempio mirabile della costituzione spagnola indica la direzione da perseguire nel riequilibrare il quadro giuridico, oggi troppo incerto e sbilanciato a favore degli interessi singoli rispetto a quelli collettivi. Né i silenzi, né le ambiguità possono essere accettabili: socializzare la rendita deve essere ritenuto un diritto per i cittadini e un dovere per le amministrazioni locali. Al contempo, i meccanismi di finanziamento delle politiche locali devono essere profondamente rivisti: da un lato, si tratta di rivedere oneri di urbanizzazione, contributi di miglioria, oneri ‘ambientali’, affinché le trasformazioni si facciano carico di una quota di investimenti pubblici strettamente correlati; dall’altro occorre trasferire risorse alle politiche territoriali e urbane, argomento che riprenderemo;
c. una volta ridefinita la cornice, occorre attrezzarsi per valutare le proposte dei privati sulla base di criteri qualitativi e non su aspetti meramente finanziari (i nuovi quartieri che Maria Cristina Gibelli ed io mostreremo sono radicalmente differenti – nell’organizzazione, nella forma e nelle funzioni – dagli ammassi di condomini, palazzine e capannoni che vengono proposti dagli immobiliaristi nostrani) o meramente formali (i nostri uffici tecnici che cosa valutano, oltre alla conformità giuridica? Fino a che punto, quest’ultimo profilo assorbe tutti gli altri?); una quota della rendita può essere socializzata; lo dimostrano gli esempi che faremo, tutti basati su un rapporto pubblico-privato ricondotto entro un alveo di ragionevolezza: se il piano risponde ad una domanda sociale, è all’amministrazione pubblica che competono le decisioni urbanistiche; fermo restando il profitto del privato nel costruire e rivendere, le rendite possono essere socializzate almeno in parte (attraverso opere pubbliche e realizzazione di edilizia sociale/innovativa…) stabilite mediante accordi e convenzioni; gli esempi che porteremo mostrano che è possibile muoversi in questa direzione (come illustrato da Camagni nelle edizioni passate della scuola, gli oneri accollati ai “developer” a Milano ammontano a meno di 1/10 del valore di mercato, mentre nel modello So.bon ammontano a 1/3);
d. la pretesa che la costruzione della città possa essere interamente delegata al settore immobiliare (project financing) è illusoria; le città richiedono certamente investimenti privati, ma anche una mole consistente e prolungata nel tempo di investimenti pubblici (nelle infrastrutture, nelle reti, nella gestione delle attrezzature, nelle politiche per le persone e i luoghi – cfr. libro Spazi pubblici). Pur rinviando alla prossima edizione della scuola una trattazione più approfondita di questo argomento, dobbiamo (1) togliere alibi alla speculazione edilizia (cfr., nelle letture, i commenti al PTR del Veneto), (2) porci il problema della quantità di risorse e della loro allocazione, ovverosia pretendere maggiore attenzione verso le politiche per le città (altro che chiacchiere sul federalismo) e prendere atto dell’avvenuta “rivoluzione urbana senza un’adeguata rivoluzione istituzionale” (la dilatazione e coalescenza degli insediamenti causa una duplice debolezza, tanto delle iniziative dei comuni maggiori quanto dei tentativi di promozione dell’intercomunalità basati esclusivamente su approcci volontaristici ; la capacità dei nostri territori di esprimere ‘strategie territoriali’ di medio periodo è molto bassa… ecc.).