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Stefano Rodotà
Internet fra sicurezza e normalizzazione
15 Gennaio 2009
Articoli del 2009
Gli snodi del rapporto fra tecnologia e democrazia: su Internet si gioca una partita fondamentale per la libertà di espressione. Da la Repubblica, 15 gennaio 2009 (m.p.g.)

Chi stabilisce le regole della democrazia planetaria? Quali poteri si dividono il governo del mondo? Queste domande possono sembrare eccessive. In realtà riflettono problemi concreti e inquietudini sul futuro di cui si discute intensamente nelle più diverse sedi internazionali, e sarebbe opportuno che qualche eco giungesse anche nel povero cortile italiano. Stanno cambiando volto i diritti delle persone e il rapporto tra tecnologia e democrazia, si fa più acuto il conflitto tra eguaglianza e esclusione, libertà antiche e nuove sono sfidate da mille prepotenze.

Per la prima volta nell’Internet Governance Forum dell’Onu, svoltosi nel dicembre scorso a Hyderabad, la maggioranza delle sessioni è stata dedicata al tema dei diritti, monopolizzando quasi l’attenzione degli intervenuti. è il segno d’una maturità raggiunta o d’una crescente preoccupazione? Forse la vera ragione di questo mutato atteggiamento va cercata nella consapevolezza ormai diffusa dell’insostenibilità di un "ordine privato del mondo", affidato alla sola logica del mercato, accompagnato dal rafforzarsi di un ordine "securitario" e da inquietanti presenze della sovranità nazionale. Tutti fenomeni unificati da un dichiarato disprezzo per ogni controllo, da una deliberata eclisse dei diritti.

La forza delle cose, con gli effetti devastanti della crisi economica e finanziaria, ha messo in discussione una ideologia, ha posto fine ad un’epoca in cui l’unica parola d’ordine era "deregolazione". E’ crollata un’intera architettura planetaria, s’invocano regole dove prima si pretendeva che i privati avessero le mani completamente libere. Stiamo così assistendo ad un singolare ritorno del diritto, come spesso accade nei tempi di transizione. Era avvenuto all’indomani della caduta del Muro di Berlino, quando si pensava appunto che un condiviso sistema di regole dovesse prendere il posto dell’"equilibrio del terrore" (e si è detto, poi, che il disordine della Russia post-sovietica, e il suo esito autoritario, sono derivati proprio dall’aver affidato tutto alle pure dinamiche di mercato, senza preoccuparsi di una adeguata costruzione istituzionale). Oggi la questione è di nuovo all’ordine del giorno. Ma che cosa dev’essere regolato, e come?

Se il mondo dell’economia e della finanza è stato pervertito dal fatto che non si negoziava più "all’ombra della legge", pesantissimo invece è stato l’intervento degli Stati con norme repressive delle libertà individuali e collettive, giustificate con l’argomento, o il pretesto, della lotta al terrorismo e alla criminalità. Identico, però, il risultato. Sacrificio dei diritti, poteri fuori controllo, uso spregiudicato della dimensione globale. Se le operazioni speculative percorrevano il mondo e si delocalizzavano selvaggiamente le imprese, la stessa tecnica è stata utilizzata per il ricorso alla tortura, con la "delocalizzazione" delle persone da Stati che si proclamavano esportatori di democrazia a Stati che accettavano il ruolo di torturatori, i veri "Stati canaglia" del nostro tempo. Se l’ordine interno e internazionale dev’essere riportato alla regola della democrazia, del rispetto dei diritti e del controllo d’ogni forma di potere, questo deve avvenire in ogni caso. I diritti non sono divisibili, non possiamo vivere in un mondo in cui si ripristina un po’ di legalità nell’ordine economico e si continua ad accettare la compressione delle libertà civili, anche perché vi sono intrecci che non possono essere sciolti se non si agisce su tutti e due i versanti.

Leggiamo le conclusioni di un recentissimo rapporto commissionato dal Consiglio d’Europa. Dopo aver sottolineato che spesso il riferimento al terrorismo è solo una "giaculatoria" di comodo, si rileva che "in troppi casi le leggi e le azioni politiche adottate sono sproporzionate e sono state usate in maniera abusiva, non per tutelare la sicurezza pubblica, ma piuttosto gli interessi politici dei governi. Gli organismi internazionali hanno messo a punto strumenti non equilibrati e che non garantiscono adeguatamente i diritti fondamentali. E ciò è dovuto, almeno in parte, al fatto che i peggiori governi sono stati i più convinti sostenitori di una espansione di questi strumenti internazionali per giustificare i loro abusi interni". Il rapporto è in buona parte dedicato alle limitazioni della libertà di espressione, e consente di cogliere bene gli intrecci tra compressione di diritti fondamentali e interessi di mercato. Il caso più clamoroso è quello delle grandi società di Internet - Google, Microsoft, Yahoo - che accettano richieste censorie da parte di Stati autoritari giustificandosi con il fatto che, altrimenti, si vedrebbero precluso l’accesso a mercati che, come quello cinese soprattutto, sono economicamente importantissimi.

Nasce così una censura di mercato, il governo del mondo digitale viene assoggettato ad una inquietante mezzadria che ha come protagonisti grandi imprese e Stati autoritari, in un perverso intreccio tra globale e locale. Così, la Cina chiede che cada il velo dell’anonimato per rintracciare un giornalista che aveva mandato negli Stati Uniti una notizia "sgradita" al regime, Yahoo lo fa, il giornalista viene arrestato e condannato a dieci anni di carcere; Google gestisce i rapporti con Stati sovrani come la Turchia o la Tailandia, che chiedono la rimozione da YouTube di video "sgraditi". Al di là dei singoli episodi, si coglie così, con nettezza, il modo in cui si sta strutturando la vera "catena di comando" del sistema planetario della comunicazione, che ha uno dei suoi più importanti terminali a Mountain View, in California, nella sede di Google, dove si decidono le sorti della libertà d’espressione, stabilendo anche regole più restrittive per "pubblicare" alcune categorie di video su YouTube. Sono temi di questi giorni, con le polemiche sull’uso di YouTube da parte dei fans dei mafiosi e del personale di un ospedale di Torino.

"Google è un giudice?", si è chiesto il New York Times, e questa domanda è rimbalzata a Parigi nella conferenza internazionale sulla libertà d’espressione promossa dal Governo francese e dall’Agenzia europea per i diritti fondamentali. La risposta è nelle cose. Google si presenta come il "decisore globale finale" in materie che riguardano libertà e diritti, esercita un potere non soggetto a alcun controllo, che suscita serie inquietudini, tanto che un gruppo di parlamentari democratici e repubblicani ha presentato al Congresso americano una proposta, il Global Online Freedom Act, per obbligare tutte le società operanti su Internet a comunicare ad un nuovo ufficio del Dipartimento di Stato tutti i casi in cui hanno "filtrato" materiali su richiesta di Stati esteri. Si cerca così di creare almeno una situazione di trasparenza, di bilanciare con una regola istituzionale un potere altrimenti incontrollabile, di cominciare a spostare qualche parte del governo del mondo in sedi democraticamente responsabili.

E´ significativo che queste vicende si intreccino con le celebrazioni di YouTube come strumento chiave della nuova democrazia, come un mezzo che ha contribuito in modo significativo alla vittoria di Obama, creando una nuova sfera pubblica, più aperta e libera dai condizionamenti ai quali sono soggetti i media tradizionali. Qui si coglie una contraddizione, che apre un problema ineludibile: si possono affidare i luoghi e i mezzi di una democrazia in trasformazione soltanto alle logiche imprenditoriali e alle volontà di governi non democratici? E´ vero che i grandi attori di Internet, Google in primo luogo, si mostrano consapevoli di questa realtà e propongono codici di autoregolamentazione per fornire qualche garanzia. Ma si sta pure avverando una facile previsione. Sotto la pressione di richieste di sicurezza e di interessi economici, Internet perde progressivamente la sua natura di spazio libero, il maggiore che l’umanità abbia conosciuto, e si avvia ad essere uno spazio "normalizzato", dove sia ridotto al minimo il rischio di imbattersi in opinioni dissenzienti, sgradite ai diversi poteri o ritenute dannose da chi è preoccupato soprattutto del fatturato pubblicitario e dell´incentivo ai consumi.

E’ una partita ancora aperta. Anche qui è tempo di regole, e il vecchio slogan "giù le mani da Internet", in cui si manifestava la fiducia in una irriducibile natura libertaria della rete, oggi deve fare i conti con la realtà di un mondo globale di cui Internet è la grande metafora e dove è in atto un visibilissimo scontro di poteri. Servono regole "costituzionali", dunque di garanzia della libertà, secondo lo schema di un Internet Bill of Rights, nato da una intuizione italiana che si è poi diffusa, ha avviato un processo al quale partecipano diversi soggetti, si svolge a diversi livelli, e può così valorizzare esperienze diverse, dalle "coalizioni" di cittadini alle iniziative del Parlamento europeo e del Congresso americano, fino ad una attenzione dell’Onu che si spera sempre più intensa.

Le prove di un governo democratico del mondo passano anche attraverso l’attenzione per questi problemi e queste esperienze, tutt’altro che settoriali. E’ prematuro parlare di modelli, e soprattutto serve il radicarsi di una adeguata cultura politica. E, allora, una domanda finale. Sarebbe possibile, nell’Italia mitridatizzata, una reazione dell’opinione pubblica simile a quella che, in Francia, ha obbligato Sarkozy a rinunciare ad un progetto di schedatura di tutti coloro che hanno un ruolo in campo politico, sindacale, economico, religioso?

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