Salvare la fabbrica era un po' come vincere alla lotteria. Ora — e solo ora — quelli dell'Innse possono dire di avere in tasca il biglietto vincente. Tra un mese si va all'incasso. Il piano regolatore dell'area è stato cambiato in extremis prima delle elezioni comunali, nel maggio scorso. A settembre, l'imprenditore bresciano che ha rilevato l'attività, Attilio Camozzi, diventerà finalmente proprietario anche di terreni e capannoni. E allora si potrà cominciare a fare sul serio.
«Cavaliere» e figli prevedono di investire qui altri cinque milioni di euro (quasi altrettanti sono già stati spesi). Oggi in via Rubattino lavorano in 47. L'anno scorso erano 36 più dieci in cassa. Il rientro di questi ultimi è iniziato. Ma la grande novità sono le nuove assunzioni. Sette giovani hanno già firmato un contratto. Un inizio. Secondo i piani del «padrone» qui a regime lavoreranno in 150-200.
La storia di quando quelli dell'Innse costrinsero il cerchio a farsi quadrato è cominciata il 4 agosto di due anni fa.
«Allora ragazzi, qui si fa lunga, ci andiamo a prendere un caffè?». Questa fu la parola d'ordine dei cinque per allontanarsi senza insospettire i poliziotti, lì in tenuta antisommossa per garantire l'uscita delle macchine. Un'operazione che avrebbe messo la parola «Fine» sulla storia della ex Innocenti.
Guardandosi le spalle Vincenzo Acerenza, Massimo Merlo, Roberto Giudici, Fabio Bottaferro e Luigi Esposito girarono dietro la fabbrica, entrarono da un pertugio e salirono sul famoso carro ponte. Scelta meditata.
«Avevamo vagliato diverse ipotesi — raccontano oggi —. Prima pensavamo di incatenarci a una delle macchine. Ma poi ci siamo resi conto che così avremmo resistito ben poco tempo. E allora ci è venuta l'idea del carro ponte».
Nessuno del variegato popolo in attesa degli eventi davanti ai cancelli della fabbrica avrebbe scommesso un centesimo sull'Innse. Cronisti, poliziotti, persino molti sindacalisti pensavano che questa fosse l'ennesima storia dall'esito scontato. Un pugno di reduci illusi e uno stabilimento già morto anni prima. Forse non ci credevano fino in fondo nemmeno loro, i cinque che salirono sul carro ponte. Un gesto estremo, dettato dalla determinazione a essere coerenti fino all'ultimo più che da una reale speranza di tenersi stretto il lavoro.
Fecero scuola quelli dell'Innse. Da allora molti si sono arrampicati sulle scale della protesta. Senza fortuna. I cinque di via Rubattino restano un unicum. Ma meglio sarebbe dire i «quattro più uno». Quattro tute blu e un funzionario della Fiom. Roberto Giudici, che continua a occuparsi di aspetti organizzativi per i metalmeccanici della Cgil, abituato a intervenire nelle situazioni più difficili. Vincenzo, Massimo, Luigi e Fabio in questi due anni sono rimasti al solito posto. In fabbrica. Lo sguardo sempre rivolto in avanti: «Quel che è stato è stato — taglia corto al telefono Massimo Merlo —. Non abbiamo niente da festeggiare. Noi pensiamo al futuro. E alle assunzioni che devono venire. Dopo tutto quello che abbiamo fatto l'abbiamo fatto anche per loro. I ragazzi che arriveranno».
postilla
Quando la fabbrica milanese si conquistò le prime pagine sulla stampa nazionale, su questo sito se ne sottolineava il ruolo simbolico, forse anche qualcosa in più, rispetto alle politiche di sviluppo territoriale. Era l’epoca di formazione del piano di governo del territorio diretto discendente della strategia privatistica e banalizzante, di una Milano fatta di metri cubi a prezzi decisi a tavolino, e parallele speculazioni di varia natura. Mentre la resistenza degli operai Innse, proprio di fianco al quartiere Rubattino figlio degenere della “riqualificazione di aree dismesse” a senso unico, poneva l’accento sul possibile futuro della città e dell’area metropolitana: campo giochi per finanzieri e indistinta folla di servi, o città vitale multifunzionale, con uno spazio anche per le attività produttive?
Oggi è cambiata la maggioranza comunale, si sta cercando di intervenire a modificare auspicabilmente in meglio il Pgt, si parla auspicabilmente in modo serio di città metropolitana. Mentre si sviluppa la vicenda di queste aree industriali sull’asse dalla Tangenziale Est verso il nuovo margine urbano della Tangenziale Esterna, a poche centinaia di metri nel territorio dei comuni di prima cintura crescono altri enormi progetti di trasformazione, come quello del megacentro commerciale Westfield-Percassi sull’ex scalo ferroviario. E sorge spontanea la domanda: quale futuro? Si può ancora pensare in termini strategici, oppure le legittime battaglie per difendere un territorio vivo e vario sono solo una specie di ritirata, strategica? La città metropolitana è davvero un obiettivo essenziale progressista (f.b.)