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Carla Ravaioli
Innovare non basta più
8 Aprile 2005
Carla Ravaioli
Come sconfiggere l’effetto serra e salvare l’economia ...

Come sconfiggere l’effetto serra e salvare l’economia è stato motivo dominante nella recente riunione londinese dei ministri dell’ambiente dei G8 e di alcuni “emergenti”. Ma, fatta salva la rilevanza dei soggetti impegnati, non si può parlare di evento d’eccezione. Ogni giorno un po’ dovunque, negli ambiti e ai livelli più diversi, si svolgono convegni dibattiti seminari dedicati al medesimo problema, cioè a dire alla necessità di fonti energetiche pulite e rinnovabili, capaci di sostituire i fossili superinquinanti oltre che in via di esaurimento. Perfino Bush, dell’ambiente finora totalmente e sprezzantemente ignaro, nel suo ultimo giro europeo ha accennato al mutamento climatico come a una “grande sfida”, da affrontare “ricercando, sviluppando, promuovendo nuove tecnologie… così che tutte le nazioni potranno progredire economicamente rallentando le emissioni di gas serra…”

In effetti da qualche tempo il mutamento climatico è oggetto privilegiato dell’attenzione generale. Non a caso l’entrata in vigore del trattato di Kyoto - di cui pure sono noti e ampiamente denunciati i gravi limiti - è stata salutata fra brindisi e pubblica euforia come un “evento storico”. Mentre l’informazione di ogni tipo si incaricava di darle massima risonanza, amplificata poi dalla dettagliata descrizione dei rischi che graverebbero sul nostro futuro se non si corresse ai ripari contro l’effetto serra; come appunto Kyoto dispone. E’ d’altronde la stessa magnitudine del fenomeno a imporsi con ineludibile evidenza all’opinione pubblica, sia per gli sconvolgenti effetti delle sue manifestazioni estreme, sia per l’emergenza smog e la crescente sregolatezza meteorologica di cui tutti direttamente soffriamo. Ma è soprattutto nella sovraesposizione mediatica ad esso dedicata, che lo sconvolgimento climatico finisce per essere identificato con il problema ambiente tout court, quasi fosse non la più allarmante ma l’unica manifestazione dello squilibrio ecologico; e quindi la sola “sfida” da affrontare e vincere, come Bush incita. Una consolatoria semplificazione, alimentata e sostenuta dal fatto che il clamore dell’informazione sull’effetto serra si accompagna al gran dibattito sulle energie rinnovabili, sulla ricerca sempre più ricca e variata di fonti diverse, sulle continue invenzioni in materia, sugli esperimenti già positivamente avviati, sui miracolosi ritrovati ormai a portata di mano. E, come noto, qualsiasi cosa indefinitamente ripetuta diventa verità.

Vaste maggioranze vengono così convinte che, se quanto prima - come ottimisticamente si promette - si troverà modo di sostituire i carburanti fossili con fonti energetiche non inquinanti, il mondo sarà salvo. L’economia anche. Con un brillante esercizio di “pensare positivo”, viene insomma drasticamente ridimensionato il quadro reale del guasto ecologico, che certamente nello sconvolgimento del clima trova la sua espressione più devastante, ma che si articola in una miriade di altri fenomeni, e proprio nel grande numero di manifestazioni diverse ma di analogo significato segnala la sua estrema gravità. Ne deriva un forte abbassamento della cognizione pubblica del rischio, e la tendenza a rimuovere o a considerare di volta in volta, solo quando si impongano con immediata urgenza, i singoli problemi che tutti insieme costituiscono il gigantesco problema del nostro futuro sul pianeta Terra.

Così solo quando la gente esasperta blocca autostrade e ferrovie, torna alla ribalta mediatica l’irresolubile (e infatti da nessuno risolta, anche se qua e là tenuta sotto controllo) questione dei rifiuti. Solo quando anche da noi i rubinetti sono a secco si sparano titoloni sull’acqua che finisce e già oggi manca a un miliardo e mezzo di persone. Solo quando una petroliera va a sbattere contro uno scoglio, si riparla del crescente inquinamento dei mari. Pochissimi sembrano poi far caso ai dati pubblicati dall’ Organizzazione mondiale della sanità, secondo i quali, oltre ai 170mila morti (circa uno tsunami all’anno) variamente imputabili al mutamento climatico, ogni anno da 2 a 5 milioni di persone soffrono di intossicazione da pesticidi e 22mila ne muoiono; mentre paurosamente si alzano le statistiche di incidenza tumorale anche tra giovani e giovanissimi, e tumori e malformazioni si moltiplicano nei territori prossimi a industrie a rischio (vedi, in Italia, Priolo, Augusta, Melillo). E praticamente del tutto ignorata è la tossicità che appartiene alla “normalità” del nostro vivere, che ci insidia sotto l’innocua faccia di oggetti quotidiani. La gran parte dei materiali sintetici in commercio e in uso, come vernici, coloranti, colle, additivi, pesticidi, fitofarmaci, numerosi tipi di plastica, batterie, metalli pesanti quali piombo, uranio, cadmio, plutonio, mercurio, absesto, ecc. sono tutte sostanze che poco o tanto ci avvelenano. Qualche settimana fa un gruppo di parlamentari giornalisti attori, volontariamente sottopostisi a un‘indagine promossa da WWF e Università di Siena, hanno saputo di presentare ciascuno mediamente tracce di 47 contaminanti (alcuni dei quali cancerogeni). Ma di che stupirci? Da oltre un decennio è stata rilevata la presenza di diossina nelle calotte polari e pesticidi nel latte materno.

A dire queste cose a uno dei tanti entusiasti delle “rinnovabili” ci si sente rispondere che sì, certo, ma il mutamento climatico è il fatto più pericoloso, prima pensiamo a quello. Se poi si chiede a che punto siamo con quello, le risposte sui tempi restano sul vago. In compenso ampia e calorosa è la descrizione di un futuro non più condizionato dalla scarsità del petrolio e dall’inquinamento, in cui si possa continuare a produrre come ora sette milioni e rotti di automobili all’anno, anzi di più, molte di più, perché anche cinesi indiani africani polinesiani tutti hanno diritto ad averne una e a circolare liberamente (che diamine, non sei per l’uguaglianza, tu?); e le nazioni, come dice Bush, possano “progredire economicamente”, usando cioè le nuove fonti energetiche per continuare a crescere e a competere tra loro per l’aumento del Pil.

A questo punto, a scanso di equivoci, mi sento tenuta ad affermare con la massima chiarezza che ritengo non solo utile ma indispensabile ogni impegno per la messa a punto di energie alternative ai fossili. Ma con altrettanta chiarezza e fermezza credo si debba dire che tutto questo non può essere guardato come la soluzione del problema ambiente, finché l’obiettivo è la salvezza dell’economia e non quella dell’ambiente naturale e di noi tutti in esso. Finché non si considera che non esiste energia in assoluto non inquinante: vi pare un inquinamento da poco una teoria di torri eoliche in una valle umbra, o una selva di pannelli solari sui tetti di un paesino medievale? Finché non si ricorda che la produzione di qualsiasi manufatto non consuma solo energia, ma una quantità di altri materiali, e di conseguenza crea rifiuti: ad esempio, ci dice John R. McNeil, “la costruzione di un’auto produce un inquinamento equivalente a quello generato dalla stessa in dieci anni di circolazione.” Finché si ragiona in termini di investimenti, di accordi economici, di crediti di emissioni, e si progetta la costruzione di migliaia di grandi centrali, e si parla di nucleare ultima generazione, per garantire una crescita sostenuta. Finché “promuovere lo sviluppo sinergico di strategie avanzate nella strutturazione di competenze di sistema”, “favorire progetti per un rapido salto di qualità tecnologica onde garantire un futuro produttivo”, e simili, non sono stralci del rapporto di una commissione tecnica al consiglio di amministrazione di una multinazionale, ma brani scelti di documenti elaborati da partiti di sinistra, istituti di ricerca e soggetti vari interessati all’ambiente, contenenti le proposte ritenute più efficaci per la riduzione dei gas serra.

Finché insomma si ritiene di poter guarire il tremendo guasto dell’ambiente con la stessa impostazione mentale che governa oggi l’economia, con le stesse certezze tecnologiche, e gli stessi criteri, lo stesso rispetto per le “leggi del mercato”, gli stessi vizi, lo stesso gergo, la stessa fede nelle magnifiche sorti e progressive dell’umanità, che hanno conquistato anche le sinistre e una parte non piccola del mondo ambientalista. Mentre è sempre più raro imbattersi nel dubbio che davvero si possa salvare il mondo con la stessa logica e gli stessi strumenti che lo stanno distruggendo. Il dubbio cioè che fondava il vecchio ambientalismo. Ma sono lontani i tempi in cui l’economista Georgescu-Roegen segnalava ai colleghi l’assurdità e la pericolosità di una scienza economica sempre più astratta, separata dalla materialità dei processi produttivi e ignara dei limiti delle risorse; e Kenneth Boulding diceva: “Chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito in un mondo finito è un pazzo, oppure un economista.” Forse bisognerebbe aggiungere: “Oppure un politico”.

Questo articolo era stato scritto per il manifesto del 1 aprile 2005, è uscito solo sulle prime edizioni, poi è stato soppresso (con l’intera pagina) per esigenze connesse ad avvenimenti dell’ultim’ora.

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