Titolo originale: In Protest, the Power of Place – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Il movimento Occupy Wall Street in costante crescita, coi suoi campi di tende a Manhattan, e oggi anche a Washington, Londra e altre città, dimostra fra le altre cose quanto nonostante i nuovi mezzi di comunicazione siano diventati indispensabili per diffondere la protesta, nulla possa sostituire la presenza fisica nelle strade.
Ce lo siamo ricordato settimana scorsa quando la proprietà di Zuccotti Park, dove si svolgono le manifestazioni di New York City, ha prima richiesto e poi rinunciato alla presenza della polizia per ripulire il parco. Così, almeno per ora, ha evitato di mostrasi davanti a tutti nel mondo in quello che sembrava proprio un pretesto per liberarsi dei dimostranti.
Avevamo a lungo sottovalutato il valore politico degli spazi pubblici. Poi è arrivata piazza Tahrir. E poi Zuccotti Park, sino a un mese fa un’oscura piazza delle dimensioni di un solo isolato , con qualche albero e delle panchine di cemento, poco distante da ground zero e a due isolati a nord da Wall Street su Broadway. Grazie a qualche centinaio di persone in poncho e sacco a pelo abbiamo imparato che esiste.
La Kent State University [ quella degli studenti uccisi nel 1970 durante una manifestazione contro la Guerra in Vietnam, raccontata dalla canzone Ohio . n.d.t.], piazza Tienanmen, il muro di Berlino: è evidente il ruolo che assumono spazi, edifici, architetture nel serbare la nostra memoria e forza politica. La politica tocca le coscienze. Ma sono i luoghi che poi colgono la nostra immaginazione.
Certo ci ritroviamo su Facebook e Twitter, ma andiamo in pellegrinaggio a Antietam, Auschwitz o anche all’Acropoli, ad ammirare quello che resta del’epoca di Pericle e Aristotele.
Fra tutte le cose, pensavo proprio ad Aristotele guardando i dimostranti di Zuccotti Park tenere una delle loro “assemblee generali” qualche giorno fa. Nella sua Politica, Aristotele sostiene che le dimensioni della polis ideale sono quelle della distanza a cui si sente il grido di un araldo. Era convinto che la voce umana avesse un rapporto diretto con il buon ordine civile. Una sana convivenza in una città ben organizzata richiede dialogo diretto.
Ed è accaduto che proprio all’inizio delle proteste, quando la polizia ha proibito l’uso dei megafoni a Zuccotti Park, i dimostranti sono stati obbligati ad escogitare un’alternativa. Così il metodo per comunicare le varie decisioni è diventato quello delle “ prove audio”, ovvero ripetere frase per frase a chi si a attorno ciò che dice un oratore, in pratica parlare tutti insieme. Un po’ come nel vecchio gioco del telefono senza fili, e terribilmente lento.
“Ma è la democrazia” come mi spiega l’attore disoccupato quarantaseienne e falegname Jay Gaussoin. “Siamo così disorientati di questi tempi, ci si è scordati come fare il punto. Però con la “ prova audio” siamo obbligati ad ascoltare gli altri, non solo le opinioni, ma proprio parola per parola, esattamente, perché dobbiamo poi ripeterlo.
“É un’architettura di consapevolezza” per usare l’azzeccata definizione di Gaussoin.
Magari può anche sembrare una specie di campo profughi ad una prima occhiata la mattina presto, quando i contestatori sbucano dai loro sacchi a pelo, ma Zuccotti Park in realtà è diventato una polis in miniatura, una piccola città che cresce. Ma il parco è anche di proprietà private, e si tratta di uno degli aspetti collaterali più interesassanti della vicenda. Un tempo si chiamava Liberty Park, ma nel 2006 gli è stato dato un altro nome, da John E. Zuccotti, presidente della Brookfield Office Properties, che possiede l’area. Una norma urbanistica impone però che la Brookfield tenga aperto il parco giorno e notte, anche se non è uno spazio di proprietà pubblica.
Quest particolarità della norma di zoning getta luce inattesa sulle contraddizioni di quanto qui in America da un paio di generazioni chiamiamo spazio pubblico. Che invece in gran parte è solo gentile concessione di proprietà privata in cambio possibilità di costruire edifici più grossi e più alti. Basta pensare all’atrio dell’edificio a torre I.B.M. su Madison Avenue e a un’infinità di spazi simili: spazi “pubblici” che non sono affatto pubblici, ma semi-pubblici, controllati dalla proprietà. Lo Zuccotti in linea di principio dipende dalle regole fissate dalla Brookfield, che proibiscono teli, sacchi a pelo, e il deposito di effetti personali sul luogo. L’intera situazione spiega piuttosto bene quanto ci si sia allontanati dall’idea tradizionale di spazio pubblico, da luogo di espressione collettiva e assemblea (diciamo lo Speakers’ Corner di Hyde Park) a banalissimo luogo commerciale (come l’ingresso del Time Warner Center).
Avendo vissuto in Europa negli ultimi anni, ho spesso visitato piazze e parchi, a Barcellona e Madrid, Atene e Milano, Parigi e Roma, occupati dai campeggi delle proteste. Queste proteste e riunioni fanno parte della norma sociale d’Europa. Forse la differenza in America si deve a tutta la nostra mania delle automobili, dell’autosufficienza, di preferire l’isolamento, ci piace più guardare che partecipare.
In Europa, si protesta per il lavoro, contro i tagli del governo e per la questione del debito. Il fatto che ciò che emerge da Zuccotti Park sia un po’ fumoso non è la questione. Il punto centrale è proprio che esiste quel campo.
“Così riusciamo a sentirci parte di una comunità più ampia” racconta Brian Pickett, trentatreenne professore aggiunto di recitazione e dizione alla City University di New York. L’ho trovato settimana scorsa, seduto fra i teli e le file ordinate di sacchi a pelo in un angolo del parco. “È importante vedere queste cose, nella condizione alienata di oggi. Su Facebook siamo da soli. Ma qui no”.
E chi dimostra si rivela anche agli altri. L’hanno ben dimostrato gli egiziani a piazza Tahrir. E a loro modo anche quelli del Tea Party. Non ci si limita a mostrare al mondo il proprio numero. Ci si scopre anche vicendevolmente: persone con atteggiamenti non identici, ma simili. Come mi diceva un rappresentante della protesta, pensiamo a Zuccotti Park come se fosse in diagramma degli insiemi, che rappresenta varie delusioni politiche ed economiche. Lo spazio del parco è il luogo in cui esse riescono a sovrapporsi. Ed è anche uno spazio comune, letteralmente.
E mi pare evidente guardando quella folla compatta giorno dopo giorno che si tratta di coesione con un portato urbanistico, vale a dire che i dimostranti, dopo aver individuato una propria forma di organizzazione senza leader ma presidiando il luogo, trovano unità nello spazio. La loro forma prescelta di organizzazione è la base del loro messaggio.
Si costruiscono così i tratti fondamentali di una città, come ho già detto. Si è istituita una cucina per mangiare, un angolo legale e un settore sanitario, una biblioteca di libri regalati, un’area per l’assemblea generale, un ambulatorio, un media center dove si possono ricaricare i portatili usando un generatore, addirittura un emporio, si chiama comfort center, stipato di vestiti regalati, lenzuola, dentifricio e deodorante: come con le cose da mangiare, ci si può servire liberamente.
Qui trovo Sophie Theriault una mattina, che fruga tra pantaloni e camicie appena arrivati. Tranquilla ventunenne che fa la coltivatrice biologica in Vermont, è qui da parecchio e lavora come volontaria. “Forse non siamo venuti qui pensando proprio le stesse cose, ma condividere il parco un giorno dopo l’altro, una notte dopo l’altra, è anche un’occasione per scoprire interessi comuni”.
C’è un ragazzino in jeans leggeri e canottiera che curiosa dentro a cumuli di giacche. “Cerco qualcosa per stare al caldo” borbotta.
“Questo mi pare ottimo” dice la Theriault indicandone una invernale di sintetico col cappuccio di pelo finto che gli sta davanti.
“Beh, non così caldo” risponde, indicando un paio di calze, che la Theriault gli passa mentre riprende: “Ci incontriamo ogni sera a discutere come tener pulito e in ordine il posto, mantenerlo un ambiente sicuro, dal punto di vista materiale ed emotivo, per tutti. Il consenso di opinioni costruisce comunità”.
Patrick Metzger, ventitreenne compositore e ingegnere del suono, fa eco al medesimo pensiero: “Dai post sulla rete non si riescono certo ad avere informazioni vere sulla gente, classe, razza, età. Fox News parla magari di folle minacciose o spacciatori. E invece c’è una gran complicazione e mescolanza: studenti, anziani, intere famiglie, i muratori in pausa pranzo, dirigenti di Wall Street disoccupati”.
Si, si magari anche qualche tizio poco raccomandabile ci sarà, ci sono sempre nelle occasioni politiche. Ma l’ha detta giusta Metzger. É proprio la diversificazione dei contestatori, almeno di giorno, ad aggiungere resilienza alla protesta. É dall’11 settembre che non c’era tanta gente a chiedere “Ci sei stato?” “Hai visto?” a proposito di un posto di Manhattan. Occupare anche il mondo virtuale insieme a Zuccotti Park spinge il movimento Occupy Wall Street, l’uno aiuta l’altro e
Ma detto questo, è nello spazio fisico che si sta costruendo un’architettura della consapevolezza.
Nota: anche noi come forse qualcuno si ricorda abbiamo provato a ragionare un po' sul tema dello Spazio Pubblico; e alle prime avvisaglie della "primavera araba" sempre sulle colonne del New York Times l'economista urbano e un po' tuttologo Edward Glaeser aveva fatto un collegamento simile, anche se più rigido, fra spazio urbano e manifestazione di democrazia. Il testo tradotto è disponibile su Mall (f.b.)