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Michael Wines
In Zimbabwe, Mugabe non rade al suolo solo i tuguri
23 Maggio 2006
Articoli del 2005
Un caso estremo di "rinnovo urbano" nelle desolate baraccopoli africane. The New York Times, 13 novembre 2005 (f.b.)

Titolo originale:In Zimbabwe, Mugabe razes more than slums – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini



BULAWAYO, Zimbabwe – il presidente dello Zimbabwe Robert Mugabe ha una parole per definire le notizie secondo cui l’operazione Drive Out Trash, campagna di demolizioni urbane mirata agli slum che il suo governo descrive come programma di miglioramento civico, abbia fatto dei cittadini più poveri dei senza casa.

”Sciocchezze” ha dichiarato alla ABC News in un’intervista trasmessa negli Stati Uniti il 3 novembre. “Migliaia, migliaia, migliaia. Dove sono queste migliaia? Andate là adesso e guardate se ci sono queste migliaia. Dove sono? Uno scherzo dell’immaginazione”.

Forse Mugabe non è stato a Bulawayo, la seconda città dello Zimbabwe, ultimamente.

Solo cinque chilometri a ovest del centro di Bulawayo, Robson Tembo e sua moglie, Ticole, vivono all’aria aperta in un piccolo recinto, 3,5x3,5 metri, fatto di pezzi di legno e rottami. File di sacchetti della spesa di plastica contengono la storia completa dei loro 72 anni.

Otto chilometri a nord, Nokuthula Dube, 22 anni, le sue due figlie e due piccoli parenti orfani se ne stanno accovacciati in una casa di due stanze non terminata fratta di cemento scadente. Quando di recente c’è andato un giornalista, c’era una sconosciuta rannicchiata sul pavimento dell’unico sgabuzzino, addormentata.

Nella parte opposta della città, Gertrude Moyo, 28 anni, vive coi suoi quattro bambini e sette altre famiglie nelle tende piantate fra i cespugli.

C’è più del solo essere senza casa, a legare queste tre famiglie. Fino a qualche mese fa, vivevano tutti a Killarney, una baraccopoli che ospitava i cittadini meno fortunati di Bulawayo sin dai primi anni ‘80.

Oggi, Killarney è un paesaggio lunare di terra cotta dal sole, sterpaglie e spazzatura bruciacchiata. Nello scorso maggio e giugno, i poliziotti hanno fatto a pezzi le baracche, bruciato quel che rimaneva, e cacciato via i più di 800 abitanti, nel quadro dell’Operazione Drive Out Trash.

”Avevano delle spranghe lunghe così” racconta Robson Tembo della polizia, allargando le mani. “Hanno demolito parzialmente tutte le capanne, e poi ci hanno ordinato di distruggere il resto”.

Dice di aver rifiutato, e che allora il lavoro è stato finito dalla polizia, che ha raso al suolo le sue due stanze fatte di pali di legno e pareti di metallo.

A più di cinque mesi dall’inizio delle demolizioni, il governo dello Zimbabwe insiste nell’affermare che la distruzione di 133.000 alloggi, secondo i suoi calcoli, è stata un’operazione di slum-clearance che era necessaria da lungo tempo, e che ha causato ai cittadini solo disagi temporanei.

Il governo sostiene che la gran massa di chi è stato privato dell’alloggio è stata trasferita verso i villaggi rurali dove viveva prima di migrare verso le città, soprattutto alla ricerca di lavoro. Altri, afferma, saranno collocati nelle migliaia di nuove case in corso di costruzione per sostituire le capanne illegali rase al suolo.

Mugabe ha respinto il tentativo delle Nazioni Unite di raccogliere 30 milioni di dollari per aiutare le vittime dell’Operazione Drive Out Trash, affermando che in Zimbabwe non c’è nessuna crisi. Nonostante l’appello pubblico del Segretario Generale ONU Kofi Annan, il 31 ottobre, il governo ha respinto qualunque sostegno che implichi propri cittadini in stato di disagio.

E pure molti lo sono, in stato di grave disagio. Sulla base delle stime del governo dello Zimbabwe, le Nazioni Unite affermano che sono state sgombrate 700.000 persone nel corso delle demolizioni di maggio e giugno, e della successiva campagna, Operazione Going Forward, No Turning Back, quando la polizia ha respinto quanti cercavano di ritornare verso le città e ricostruire.

Un’indagine di agosto su più di 23.000 famiglie dello Zimbabwe condotta da un gruppo di sostegno del Sud Africa, ActionAid International, calcola le persone private di abitazione sino a 1,2 milioni: più di uno su dieci Zimbabweani.

Dove siano finiti molti è un mistero. Il governo ne ha trasportati migliaia in campi di raccolta che poi sono stati smistati, e altre migliaia su camion sino all’aperta campagna, dove sono stati lasciati, apparentemente nei pressi delle loro abitazioni rurali. Si tratta di persone registrate dalle autorità locali, ma quasi certamente sono solo di una piccola parte del totale.

E allora, dove sono i senza casa?

“Questa è ciò che definisco una crisi umanitaria invisibile: invisibile agli occhi internazionali, e il motivo è che gli sgomberati sono stati dispersi” dice David Mwaniki, coordinatore di ActionAid in Zimbabwe.

Molti sono probabilmente con dei parenti; alcuni hanno lasciato il paese.

Altri sono nella savana, e sopravvivono della pietà dei vicini. Molti altri sono svaniti dentro a qualche catapecchia, tenda o casa costruita a metà.

Le Nazioni Unite affermano che 32.000 dei 675.000 abitanti di Bulawayo hanno perso la loro casa, ed è stato loro ordinato di andarsene dalla città durante la campagne di demolizione; i funzionari locali pubblici parlano di 45.000. Torden Moyo, che dirige un coordinamento di gruppi civici chiamato Bulawayo Agenda, sostiene che non ci sono dubbi su dove siano andati.

”Il novantanove per cento ora è tornato” dice. “Sono ancora nei guai, ancora senza casa, ancora senza un centesimo, senza un posto dove stare. Sono stati trasformati in profughi nel loro stesso paese”.

Killarney è la prova di tutto questo. Prima delle demolizioni, era povera sino all’osso ma viva, divisa in tre villaggi con negozi e servizi. Tutto questo è stato raso al suolo e bruciato. A nord-est della città, non lontano dalla strada per l’aeroporto di Bulawayo, ci sono una decina di piante di granturco e qualche vegetale che cresce in un orto improvvisato fuori dalla casa non terminata dove stanno Dube e la sua famiglia, ma cinque di loro sopravvivono con la farina donata da una vicina chiesa

Dube è tornata dalla scuola del nipote un giorno in giugno, e ha trovato la sua casa al Villaggio Uno di Killarney distrutta e in fiamme. Senza casa e incinta, ha perso il suo lavoro di donna delle pulizie in un vicino sobborgo. Suo marito, Nomen Moyo, ha dovuto andarsene per mantenere il lavoro di giardiniere. Dube racconta che lei e i bambini hanno camminato per settimane, dormendo sul ciglio della strada, prima di trovare il guscio dove vivono ora.

Ha settembre, Dube ha partorito una bambina, Mtokhozisi. Ha lasciato soli la figlia di tre anni, Nomathembe, e i due orfani, Pentronella di dieci e Kevin di quattordici, durante il parto in ospedale. Poi è tornata a casa a piedi con la neonata.

”Sono uscita al mattino” racconta “e tornata verso le 3”.

Qualche settimana fa è comparso un uomo.

“Voleva che ce ne andassimo” dice. “Sostiene che questa è la sua casa”.

Se le chiedete dove andranno risponde “Solo Dio lo sa”.

Dall’altra parte della città Moyo, che abitava da 23 anni a Killarney quando è stato sgombrata l’11 giugno, ora vive in una tenda tre metri per cinque coi suoi quattro bambini. Il marito è morto un anno fa. Dice che la polizia prima ha trasportato la famiglia in un campo di raccolta temporanea per senza casa, poi alla tenda. Moyo racconta che le hanno detto di aspettare per una nuova casa.

Il governo sta costruendo una schiera di case di fianco alla tenda, e si dice che siano per chi ha perso l’alloggio per le demolizioni. Moyo dice però che la polizia le detto che la sua famiglia non avrà una nuova casa, ma un pezzo di terra agricola a nord della città.



Nota: il testo originale ripreso dal sito dello Internationale Herald Tribune (f.b.)

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