"La fame" (Einaudi, La Repubblica.it, 30 aprile 2016 (p.d.)
Tutto questo, assai genericamente, lo sappiamo. Salvo poi dimenticarlo il giorno dopo. È un meccanismo di difesa normale quello di scrollarsi di dosso fardelli insopportabili per continuare a vivere. Sino a quando non arriva qualcuno che ci rispiega tutto a un livello di risoluzione inedito, offrendo il contesto storico che ci ha portati sin qui, e la storia prende un senso nuovo, più nitido e urgente. È successo per la camorra con Roberto Saviano. Succede per (Einaudi, pp. 722, euro 26, traduzione Rolla, Cavarero, Niola) con Martín Caparrós, un cinquantottenne giornalista e romanziere argentino con dei baffi a manubrio che lo fanno assomigliare a un domatore di leoni. Nel suo libro monumentale, frutto di cinque anni di studio robusto e viaggi in alcuni dei Paesi più disperati del Pianeta, compie una specie di ambiziosissima cronaca di milioni di morti annunciate. Intervallando i capitoli con delle specie di vox pop, discorsi veri o verosimili che la gente pronuncia sulla mancanza di cibo, per poi ripetere come un mantra: «Come cazzo facciamo a vivere sapendo tutto questo?».
Ho incontrato Caparrós, fresco vincitore del Premio letterario internazionale Tiziano Terzani 2016, quando è stato ospite del Festival Letteratura di Mantova. Aveva presentato il libro nella Basilica Palatina di Santa Barbara che aveva fatto quasi venir giù con un paio di bordate sul suo connazionale Papa Francesco («Cosa potrebbe fare contro la fame? Dimettersi») e su Madre Teresa («Ha fondato circa cinquecento conventi in cento Paesi e non ha mai aperto una vera clinica a Calcutta»). Noi però ci siamo incontrati al primo piano del trecentesco Palazzo Castiglioni, in un salottino così bello, con un vassoio di uva così succosa, inneschi ideali per una serie di sensi di colpa rispetto al tema da affrontare.
Tanto per non chiamarci fuori dalla catena delle responsabilità, ho iniziato la conversazione leggendogli una sua frase sulla nostra categoria: «Sono morti che non finiscono sui giornali. Non sarebbe possibile: farebbero collassare i giornali». La fame, ho azzardato, avrebbe bisogno di un miglior ufficio stampa? «Intanto è il problema altrui per antonomasia. Non è mai direttamente nostro. Non siamo mai noi – noi che ci preoccupiamo dell’ecosistema, dei diritti sessuali, della libertà d’espressione, della pace in Medio Oriente – a soffrirne. Perché dovrebbe importarcene? Se ne avessi il potere, però, pubblicherei una storia di fame al giorno. Anche non lunga, e soprattutto non astratta, ma con un nome e un volto. Guardate cosa è successo con la foto del piccolo Aylan, trovato morto su una spiaggia turca mentre cercava rifugio in Europa. Sono convinto che lo stesso potrebbe accadere parlando di affamati, piuttosto che di fame».
Esattamente ciò che lui fa lungo settecento pagine. Il libro inizia in Niger, dove ogni donna ha in media sette figli (il tasso di fertilità più alto al mondo) e dove uno su sette muore prima di compiere cinque anni. È lì che domanda alla trentenne Aisha: se avesse potuto chiedere quello che voleva, qualunque cosa, a un mago capace di dargliela, che cosa gli avrebbe chiesto? E lei gli risponde: una vacca. Il cronista non ci crede: «Ma davvero? Guarda che puoi chiedere qualsiasi cosa». Al che l’intervistata rilancia: «Due vacche. Con una ci sfameremo noi, con l’altra produrrei cose da vendere e non avrei fame mai più».
Una vacca, per la cronaca, costa l’equivalente di 500 dollari. Il perimetro estremo dei sogni di questi esseri umani non si spinge oltre il valore di una bici elettrica. La parte terribile è che uno su mille li corona. Forse. Ma questo non è affatto, sia chiaro, un libro lacrimevole. È un trattato sulle umane contraddizioni intorno al tema più frusto, globale e ritualizzato che esista. Così eroso da parole vuote che anche a Miss Venezuela, quando viene laureata Miss Mondo, viene spontaneo dire che il suo augurio principale è proprio «combattere la fame nel mondo» (che è sempre meglio di aspirare, come ha fatto l’incauta omologa italiana, di vivere durante la seconda guerra mondiale per vedere l’effetto che fa).
Il possente racconto si snoda intorno ad alcune date chiave. La prima: anni 80. «È allora che si impone il cosiddetto Washington Consensus con cui la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale convincono, a forza di minacce riguardo i loro debiti esteri, la maggior parte dei governi africani a ridurre l’ingerenza statale su vari settori, a partire dall’agricoltura. In caso di raccolti scarsi o carestie, i ministeri competenti non avrebbero più potuto combatterle sovvenzionando alcuni alimenti oppure regolando i prezzi per legge». Senza queste ragionevoli armi in Niger, negli anni successivi, migliaia di persone che avrebbero potuto essere salvate morirono di fame. Una circostanza che, col tempo, avrebbe sgretolato il consenso. «Al punto che più tardi la stessa Banca mondiale avrebbe affermato che i sussidi all’agricoltura servono quattro volte tanto rispetto a ogni altro sussidio nella riduzione della fame. Ma tra il 1980 e il 2010 la proporzione degli aiuti internazionali all’Africa destinati all’agricoltura passò dal 17 al 3 per cento».
La sagra delle parole vuote, dalle bellezze in bikini ai funzionari internazionali in grisaglia, impazza tragicomica. Con un’aggravante specifica e particolarmente odiosa che a Caparrós non sfugge: «Mentre dicevano all’Africa che era peccato farlo, Stati Uniti ed Europa sovvenzionavano i loro agricoltori con circa 300 miliardi di dollari l’anno. Le vacche europee sono le creature con la maggiore sicurezza alimentare del Pianeta. Per loro si spendono circa 2,70 dollari al giorno. Perciò quando a un leader contadino di Vidarbha domandarono quale fosse il sogno dell’agricoltore indiano, questi rispose: “Il sogno dell’agricoltore indiano è reincarnarsi in una vacca europea”».
Un’altra data importante, e ancora più vaga, è quella in cui il mondo ha cominciato a essere in grado di produrre cibo per tutti. Parla Caparrós: «Mi sono fatto l’idea che succeda a cavallo tra anni 80 e 90, ma mi piacerebbe che gli storici raccogliessero la sfida per una datazione accurata. Oggi viviamo nel paradosso che produciamo cibo per 12 miliardi di persone eppure quasi un miliardo è ancora denutrito. Dove vanno a finire i sei miliardi mancanti? Nei Paesi ricchi il 30-40 per cento lo buttiamo. Poi ci sono altri sprechi, tipo che per produrre un chilo di salmone in allevamento servono otto chili di altri pesci che lui si mangia. Quindi il cibo c’è, ma è distribuito molto iniquamente. Per consentire a noi di sbafarci un salmone o una bistecca serve che qualcuno che potrebbe mangiare altro non lo faccia. L’aveva già fatto notare l’attivista Lester Brown ogni volta che gli domandavano quanta gente è in grado di nutrire il nostro Pianeta: "Se tutti mangiassimo come gli americani, che ingurgitano tra gli 800 e i 1.000 chili di cereali a testa l’anno, soprattutto attraverso le carni prodotte con quei cereali, il raccolto mondiale di cereali potrebbe nutrire 2,5 miliardi di persone. Se tutti mangiassimo come gli italiani, che consumano due volte meno carne, si potrebbero nutrire 5 miliardi di persone. Se tutti seguissimo la dieta vegetariana degli indiani potremmo nutrire 10 miliardi di persone". Quindi dipende. Fuor di dubbio sono invece gli enormi passi avanti fatti nella produzione alimentare a partire dagli anni 60, quando il biologo Norman Borlaug scoprì, tra l’altro, un gene che faceva contrarre lo stelo del grano. Lo stelo più corto e più spesso consentiva alla pianta di sopportare molti più chicchi. In poco tempo la resa di ogni appezzamento si triplicò o quadruplicò».
La stessa idea, applicata al riso, risparmiò milioni di vite umane in India, dove lo scienziato americano venne chiamato come consulente del governo alla vigilia di una carestia imponente. Genetica, chimica, tecnologia sotto forma di fertilizzanti e nuovi sistemi di irrigazione moltiplicarono i raccolti. Per questo Caparrós si arrabbia per certe posizioni che trova un po’ caricaturali, alla Vandana Shiva, sulla difesa della via naturale all’agricoltura: «Da diecimila anni l’agricoltura è una lotta contro la natura, perché non prenda il sopravvento, per sviluppare le astuzie di scegliere la pianta che resiste meglio delle altre e così via».
Il tentativo di fare della natura una religione è tanto antico quanto pericoloso. L’autore cita la seguente frase: «L’uomo che tenta di ribellarsi alla ferrea logica della natura è coinvolto nella lotta contro i fondamenti cui deve la sua stessa esistenza come uomo, perciò la sua azione contro la natura lo porta inevitabilmente alla rovina» (lo scriveva Adolf Hitler in Mein Kampf, ma avrebbe potuto tranquillamente copiarlo-incollarlo un benintenzionato fricchettone dei tempi nostri).
Il problema, dunque, non sono affatto gli ogm che possono aiutare e molto nella lotta contro la fame, ma il loro sfruttamento economico. Il fatto che la Monsanto controlli il 90 per cento dei semi transgenici e che sia nella condizione di dettare condizioni capestro ai contadini che vogliono usarli. In questo schema, spiega lo scrittore porteño, il progresso tecnologico non è un tentativo di migliorare la vita, ma di fare in modo che alcuni accumulino più ricchezza: «Si tratta, dunque, di inventare un modo per impossessarsi di questi nuovi ritrovati: di individuare azioni politiche per mettere le nuove tecnologie al servizio di molti».
L’ultima data è l’unica precisa: 1991. Fu in quell’anno che Goldman Sachs decise che «il nostro pane quotidiano sarebbe potuto diventare un ottimo investimento». I loro quant ruppero l’ultimo tabù creando una specie di paniere finanziario che riproduceva l’andamento delle principali materie prime alimentari. Nacque così il Goldman Sachs Commodity Index e la gente cominciò a comprare le sue azioni. Nel 2003 gli investimenti valevano circa 13 miliardi di dollari. Nel 2008 invece 317. E i prezzi, sia dei titoli che dei cereali sottostanti (i due terzi delle nostre calorie provengono da riso, mais e grano), in quella sorta di profezia autoavverante che è il mercato, salirono alle stelle. I fortunati azionisti festeggiavano a ostriche preferendo non rendersi conto che quegli aumenti significavano la contestuale condanna a morte per milioni di persone meno fortunate per cui anche la palla di miglio era di colpo diventata una chimera.
Nell’ultimo anno i prezzi dei cereali sono scesi di parecchio. C’entra il rallentamento dell’economia cinese e soprattutto la caduta del prezzo del petrolio, grazie al fracking e altre variabili, che serve per far funzionare i trattori. «La cosa mostruosa» aggiunge Caparrós «è che, sebbene siano arrivati a costare anche la metà di soli pochi anni fa, nei Paesi poveri questa riduzione non si è vista. Si è misteriosamente fermata prima del livello dei consumatori».
Tra le tantissime cose che non sapevo prima di leggere questo librorientra anche l’andamento del numero dei denutriti nel tempo. Nel senso: ero convinto che si riducessero di anno in anno. È vero il contrario. Nel 1970 si calcolava che fossero 90 milioni solo in Africa, nel 2010 oltre 400 milioni. Come se non bastasse nel 1990 la Fao rinnega il metodo statistico usato sin lì e, rifacendo i calcoli, sostiene che gli affamati del '70 nel mondo non erano 460 milioni ma 941 milioni. «La cosa permetteva di affermare che i 786 milioni di quel momento, il 1990, non significavano un aumento della fame ma una diminuzione: 155 milioni di affamati in meno, un grande risultato». Totò e Peppino al Palazzo di Vetro.
In questa opera mondo c’è così tanta roba che si rischia di perdersi. Caparrós ha un occhio aguzzo per le disuguaglianze. Mette a confronto un ettaro americano, che produce fino a 2.000 tonnellate di cereali, con un ettaro del Sahel, che ne produce a stento uno, poco meno di quanto faceva un contadino della Roma antica. Oppure denuncia la contraddizione interna indiana, decimo Paese più ricco del mondo e primo per denutriti, che ogni tanto prova a mettere sul problemino delle goffe pezze simil-etiche («Pensano di avere scelto di essere vegetariani»). La verità è che siamo tanto più umani quanto più siamo sazi. E siamo tanto più umani quanto minore è il tempo che dobbiamo dedicare a saziarci (quasi tutto per gli animali, circa una settimana all’anno per i norvegesi: l’autore lo chiama «grado di umanizzazione»).
Omero usava "mangiatori di pane" come sinonimo per uomini. La fame è anche una delle ragioni principali che spiegano la differenza tra gli 82 anni di aspettativa di vita di un italiano contro i 41 di un mozambicano o dei 38 di uno zambiano. Eppure quelle vite dimezzate avranno un senso, nel grande schema delle cose, se Franklin Delano Roosevelt aveva ragione a dire che «gli uomini bisognosi non sono uomini liberi. La gente affamata e senza lavoro è la pasta di cui sono fatte le dittature».
Da allora il criterio per definire la classe media (che anche da noi si sta riducendo) è sempre stato che essa spende, in cibo, meno di un terzo dei propri introiti. Gli chiedo, nei tanti gironi di privazione che ha visitato, cosa l’abbia colpito di più. «Sono così tante che non sempre do la stessa risposta. Oggi mi viene in mente quella donna del Bangladesh che faceva bollire delle pietre in un marmitta per dare l’illusione ai figli che c’era qualcosa da mangiare. Così drammatico, e così inutile. Una metafora tra tante degli inganni che si accettano».
E quindi, alla fine, come cavolo facciamo a vivere sapendo tutto questo?Ci pensa un po’, si liscia il baffo e con tutto il coraggio del domatore di leoni dice: «Illudendoci di fare, ognuno per la sua parte, qualcosa che riduca il problema. Anche se servirà a poco o a nulla. Anche se, come mi hanno spiegato dei ragazzi di Medici senza frontiere, è come sperare di fermare un’emorragia femorale con un cerotto. Eppure quel cerotto ce lo mettono. Sempre. Giorno dopo giorno. Così dobbiamo fare noi. Non tanto per l’etica del risultato, ma per la necessità che sentiamo di farlo. La storia ci ha abituati alle sorprese. Perché dovremmo escludere di averne delle belle anche qui?». Già, perché. Sbaglia ancora, sbaglia meglio è l’esergo beckettiano del libro. Il finale è aperto. Mai come questa volta tutti possono contribuire a scriverlo.