«Levolpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo», spiega Gesù nel Vangelo di Matteo. Eppure non passa giorno nel nostro (sedicente) cattolicissimo Paese senza che tanti (sedicenti) cattolici con la bocca piena di parole bellicose in nome delle tradizioni cattoliche mostrino un quotidiano disprezzo verso chi «non ha dove posare il capo». Un esempio? L'altolà della polizia ai volontari che portavano tè caldo ai clochard rifugiati nella stazione di Mestre: «Non avete l'autorizzazione».
Ferocia burocratica. Degno cesello all'ottusa resistenza opposta dalla società Grandi Stazioni al Prefetto che in questi giorni di neve e gelo, segnati dalla morte di un clochard a Vicenza, ha dovuto fare la faccia dura per ottenere che gli androni delle due stazioni veneziane non fossero più chiusi e sbarrati dall'una di notte alle cinque di mattina. Quello della città serenissima, dove la Regione ha drasticamente tagliato negli ultimi due anni gli aiuti ai senzatetto (ai quali destina un quarto della somma stanziata per le feste di compleanno della Repubblica del Leon) è però soltanto l'ultimo di una catena di episodi che marcano una continua e progressiva indifferenza, se non proprio insofferenza, nei confronti degli «ultimi tra gli ultimi». Basti ricordare la morte di «Babu» sotto i portici del Teatro Carlo Felice di Genova dopo la sbrigativa operazione di «pulizia» (o «polizia»?) con la quale alla vigilia di Natale erano state buttate via le coperte «sporche» regalate ai senzatetto dalla Caritas. O la bravata criminale dei quattro teppisti riminesi che hanno dato fuoco a un clochard «per noia». O ancora la motivazione surreale della multa di 160 euro data a fine dicembre da certi poliziotti fiorentini a poveracci che passavano la notte all'addiaccio: «Dormiva in modo palesemente indecente».
«Il decoro! Il decoro!». Questa è l'obiezione che si leva. La stessa che ha spinto il Comune di Verona, guidato da Flavio Tosi, a pretendere che la carta d'identità dei «barboni» venisse cambiata. Prima, alla voce «indirizzo », c'era scritto: «Via dell'Accoglienza ». Un piccolo eufemismo, un po' ingenuo, per non marchiare il titolare del documento. Adesso no: «Senza indirizzo ». Per carità: ineccepibile. Però, «dietro», c'è tutta una filosofia. Sempre più tesa a tenere ben separati «noi» e «loro».
Sempre più allergica a chi «rovina» l'immagine delle città. Sempre più sbuffante verso gli emarginati. Fino a spingere tempo fa l'allora sindaco di Vicenza Enrico Hullweck a vietare l'accattonaggio ai medicanti affetti da «deformità ributtanti». Una definizione che, al di là delle colpe di certi truffatori (da colpire: ovvio), suonava oscena e offensiva per ogni disabile.
Eppure, quei «barboni» che oggi danno tanto fastidio a una società spesso indecente ma ringhiosa custode del feticcio della «decenza», sono una parte della nostra vita. Da sempre. Della vita religiosa, come ricorda la scena di San Francesco che dona il mantello a un povero nel ciclo di affreschi di Assisi attribuiti a Giotto. Della vita musicale, come ci rammentano le storie del suonatore di organetto che cammina scalzo nella neve, ne Il viaggio d'inverno di Franz Schubert, senza incontrare chi gli metta un centesimo nel cappello oppure della Frugola che ne Il tabarro di Giacomo Puccini, è «perennemente intenta a rovistare tra i rifiuti».
Fanno parte della nostra vita letteraria, dal barbone Micawber nel David Copperfield di Charles Dickens all'Andreas Kartack de La leggenda del santo bevitore di Joseph Roth fino a Il segreto di Joe Gould, il brillante intellettuale laureato ad Harvard che aveva deciso di vivere da clochard per scoprire l'essenza dell'uomo «tra gli eccentrici, gli spostati, i tubercolotici, i falliti, le promesse mancate, le eterne nullità» e insomma tutti quelli senza casa: «gli unici tra i quali mi sono sempre sentito a casa». Per non dire del cinema, dall'irresistibile Charlot il vagabondo al tenerissimo Miracolo a Milano di Vittorio De Sica, da Archimède le clochard con Jean Gabin al Bodou salvato dalle acque di Jean Renoir fino a La ricerca della felicità, di Gabriele Muccino, benedetto da trionfali successi al botteghino. Prova provata di come in tanti riusciamo a palpitare e commuoverci e fare la lacrimuccia per le sventure di Copperfield o di Will Smith, costretto dalla corte a vivere come un barbone. E usciti dal cinema scansano l'ubriacone a terra sul marciapiede: «Dio, quanto puzza! ». Eppure, le cronache di questi anni ci hanno insegnato a conoscere un po' di più, i nostri «santi bevitori». Finiti spesso sotto i ponti, dicono i dossier, magari solo perché lo Stato, dopo aver abolito l'orrore dei manicomi, si è dimenticato di trovare delle alternative decenti per coloro che non ce la fanno ad affrontare da soli l'esistenza e non hanno una famiglia in grado di farsi carico del fardello. Oppure perché travolti da rovesci della vita. O sconvolti dal tradimento delle persone in cui credevano. O schiacciati da un dolore troppo grande.
Persone come Luigi Pirandello, che aveva capelli lunghi e barba, era omonimo dello scrittore di cui il padre era cugino, aveva studiato, parlava inglese e francese ma girava nel centro di Roma spingendo un carretto dove raccoglieva cartoni. O Filippo Odescalchi, figlio di don Alessandro Maria Baldassarre, principe del Sacro Romano Impero, discendente di papa Innocenzo XI, che abbandonò all'inizio degli Ottanta il palazzo di famiglia in piazza Santi Apostoli per andare ad abitare sotto il colonnato di Palazzo Massimo insieme con una donna e un barbone che indossava sempre il frac e il papillon, si presentava come «Ele D'Artagnan, attore cinematografico, figlio del grande Toscanini» e chiedeva a tutti un appuntamento con Federico Fellini: «Deve darmi una buona parte nel prossimo film perché poi ho deciso che mi ritiro».
Persone come Eugenia Bobbo, che in gioventù era stata una bellissima ragazza di Chioggia e aveva fatto perdere la testa a un erede di José Echegaray y Eizaguirre, matematico, drammaturgo, politico, ministro spagnolo, insignito nel 1904 del Nobel per la letteratura. Rimasta vedova, si era lasciata andare. Quando morì, i giornali scrissero che «per trent'anni aveva vissuto da barbona sotto i portici di palazzo Ducale, tra una panchina di marmo e la quinta finestra al pianterreno », che «parlava quattro o cinque lingue, aveva una cultura impressionante e in trent'anni non aveva mai chiesto l'elemosina» e viveva delle premure di un po' di nobildonne, prima fra tutte la spagnola Duchessa di Alba e raccontava: «A teatro, quand'ero giovane, tutti i binocoli erano puntati su di me».
Persone che, per i motivi più diversi, si lasciano alle spalle tutto. E alle quali, oltre a qualche coperta in questi giorni di gelo, una cosa almeno la dobbiamo: un po' di rispetto.
Volete comprendere perché riteniamo che i “non luoghi” (le stazioni ferroviarie, i centri commerciali, gli aeroporti), ben lungi da essere “superluoghi” e strutture moderne capaci di sostituire le piazze, ne siano l’esatto contrario? Volete comprendere perché sosteniamo che essi siano l’esatto corrispondente della riduzione del cittadino a cliente, dell’uomo a consumatore di merci spesso inutili? Volete comprendere perchè abbiamo sostenuto che l’operazione dei manager delle ferrovie italiane “cento stazioni - cento piazze” sia stata una pericolosa campagna di mistificazione? I primi due capoversi dell’articolo di G. A. Stella vi aiuterànno a comprenderlo. È una testimonianza lucida ed efficace del disastro che la cattiva urbanistica compie, della degradazione dell’uomo e nella società di cui è veicolo. Nell’inconsapevolezza dei decisori: sia di quelli tecnici che di quelli politici.