«Libia. Incontro con la piattaforma libica della società civile che chiede al prossimo Consiglio Onu per i diritti umani di creare un team di monitoraggio. «Abusi sistematici, torture, rapimenti: diritti violati da tutti gli attori del conflitto». il manifesto, 11 marzo 2017
Due appuntamenti vanno segnati sul calendario libico di qui a 15 giorni: il 15 marzo la Corte d’Appello di Tripoli emetterà la sentenza sul memorandum d’intesa firmato da Italia e governo di unità nazionale (Gna) sui migranti; e il 22 all’Onu si riunirà nella sua 34esima sessione il Consiglio per i diritti umani.
Due date importanti. Ad attenderne i risultati ci sono anche Zahra’ Langhi, fondatrice della Libyan Women’s Platform for peace; Karim Saleh, responsabile per la Libia del Cairo Institute for Human Rights Studies; e Hisham al Windi, attivista.
Li abbiamo incontrati a Roma dove sono incontreranno istituzioni e associazioni della società civile in rappresentanza della piattaforma nata nel settembre 2016 e che mette insieme 16 organizzazioni di base libiche impegnate in campi diversi, migrazione, genere, media, libertà di espressione. L’obiettivo è dare la misura della sistematicità delle violazioni in atto nel paese e la distruttiva frammentazione in autorità diverse che impedisce l’individuazione dei responsabili di crimini.
Il quadro ce lo danno mostrandoci la lettera inviata al Consiglio per i diritti umani e sottoscritta, tra gli altri, dal Cairo Institute, Amnesty International e Human Rights Watch: 450mila sfollati interni, centinaia di migliaia di migranti africani in transito detenuti e abusati, migliaia di prigionieri nelle carceri delle diverse autorità.
«La situazione umanitaria in Libia non ha mai smesso di deteriorare dal 2011 – ci spiega Karim – È peggiorata nel 2014 con la scissione delle autorità centrali in due e poi nel 2016 con la scissione in tre diversi esecutivi in competizione, ognuno con un braccio armato. Le violazioni sono sistematiche: detenzioni arbitrarie, tortura e stupro nelle carceri, rapimenti e sparizioni forzate che hanno come target sia i difensori dei diritti umani che la comunità giudiziaria, giudici, avvocati, procuratori e le famiglie delle vittime che tentano le vie legali».
«Gli abusi sono perpetrati da tutti i diversi attori del conflitto, che si muovono in una free-zone. La comunità internazionale deve creare un meccanismo di monitoraggio degli abusi».
Che è esattamente quello che chiedono al Consiglio per i diritti umani: una missione di esperti indipendente che monitori la situazione umanitaria e faccia progressi per perseguire i responsabili.
«L’Isis non è il solo gruppo criminale in Libia – continua Karim – All’interno delle frammentate istituzioni di est e ovest la situazione è la stessa. E dietro di loro ci sono Stati che trasferiscono con regolarità armi e denaro, come l’Egitto a favore di Haftar in violazione dell’embargo Onu. Armi che non solo impediscono di spezzare il circolo della violenza, ma che aumentano il potere di gruppi estremisti in totale contraddizione con le dichiarazioni pubbliche delle autorità egiziane: dicono di sostenere Haftar in chiave anti-terrorismo, ma nella realtà lo creano».
«A monte sta il fallimento dell’intervento occidentale che non ha disarmato e demobilitato i gruppi nati dopo Gheddafi né aiutato alla costruzione di un sistema di sicurezza interna basato sul rispetto dei diritti umani – aggiunge Zahra’ – Il fallimento nello state-building e nel bloccare il flusso di armi ha disintegrato il paese».
Lo si vede nel fenomeno delle città-Stato libiche: ogni gruppo governa uno specifico territorio con un diverso obiettivo politico, religioso o etnico. Hisham tenta da tempo di monitorare i diversi attori che nascono e si riproducono, «le repubbliche militari» le chiama.
«Alcune milizie sono legate al premier del Gna Sarraj, al generale Haftar o all’ex primo ministro Ghwell; altri non si sono coalizzati con nessuno. Tale ramificazione di poteri in competizione è dovuta all’enorme afflusso di armi nel paese dal 2011. Non è stato immaginato alcun piano per il post-Gheddafi, per disarmare le milizie e far partecipare questi soggetti in un processo politico serio. Le dinamiche delle ‘repubbliche militari’ sono in continua evoluzione: si ampliano e si riducono con grande rapidità; alcune sono legate a poteri precedenti, clan, tribù, altre sono frutto di poteri nuovi o di scissioni, come lo stesso Haftar o i cosiddetti ‘quiet salafi’, i salafiti non jihadisti, invisibili sotto Gheddafi ma ora presenti anche tra le fila di Haftar in chiave anti-jihadista. La parte più debole, in tutta questa situazione, è lo Stato».
Uno Stato che non c’è, sebbene qualcuno finga di vederlo. Come l’Italia che con il Gna, che controlla a mala pena Tripoli, ha raggiunto un’intesa per frenare i migranti. Il giudizio della società civile è pessimo: «Un atto immorale: l’Italia ha forzato un paese troppo debole – dice Zahra’ – Non è un accordo, ma un memorandum, trucco che elimina aspetti legali come la ratifica dei due parlamenti che infatti non c’è stata. Il Gna è debole, si aggiunge ad altri due “governi”, non ha autorità né legittimazione perché non è stato votato da nessuno. In questa situazione senza potere di fatto né legittimazione popolare il Gna si è visto imporre un accordo dall’Italia che incrementerà gli abusi sui migranti che resteranno in un paese dove le milizie abusano di loro dall’arrivo alla tentata partenza. È immorale e esacerba la fragilità del Gna, un governo che tra 9 mesi scade. Qual è il piano dopo 9 mesi?».