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Gaetano Azzariti
Immaginare il cambiamento
3 Ottobre 2015
Sinistra
«C'è vita a sinistra. Non se "c’è" vita ma "quale" vita per la sinistra. Senza la capacità di andare oltre l’immediato e di dare "carne" e "potere" alla politica c’è solo una lenta agonia». Il manifesto, 2 ottobre 2015

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Ciò di cui più abbiamo biso­gno è pro­durre nuovi punti di vista, non arren­derci al pre­sente, riu­scire ad incri­nare l’unica nar­ra­zione rimasta.

La sini­stra è morta se non rie­sce ad imma­gi­nare il cam­bia­mento, ad inter­pre­tare non solo un gene­rico e dif­fuso males­sere, ma a pro­spet­tare un futuro diverso. Da troppo tempo, invece, il pen­siero cri­tico ha per­duto la sua radi­ca­lità, schiac­ciata dal peso del pre­sente. I diritti arre­trano, le nostre forze sce­mano. Se siamo giunti sin qui è inu­tile negare che sia anche per colpa nostra: non abbiamo saputo inter­pre­tare il reale, ci siamo chiusi in difesa. Ma non è ser­vito a nulla, nulla abbiamo difeso.

Ora, che poco abbiamo da per­dere, dovremmo cer­care di uscire dalla palude, per misu­rarci con le nostre idee e non più solo con la razio­na­lità del reale. Dovremmo ripren­dere seria­mente in con­si­de­ra­zione la distin­zione tra stra­te­gia e tat­tica (la dop­piezza togliat­tiana?). La prima per la rico­stru­zione di una pro­spet­tiva di sini­stra che sap­pia aggre­gare le forze poli­ti­che e i sog­getti sociali neces­sari per il cam­bia­mento futuro; la seconda per resi­stere e per con­tra­stare la poli­tica dominante.

La mia impres­sione è che una grande colpa della sini­stra sia stata quella di non cre­dere in se stessa, nella sua capa­cità di cam­biare. Gran parte di essa (la sini­stra di governo) si è da tempo arresa, stanca di lot­tare, sod­di­sfatta delle con­qui­ste otte­nute nel corso del Nove­cento, si è limi­tata a gover­nare il pre­sente, cer­cando — ben che fosse — di osta­co­lare gli spi­riti più sel­vaggi, fre­nare gli arre­tra­menti più vistosi. Alla fine, però, ha per­duto se stessa. Rinun­ciando a pro­durre una sua nar­ra­zione, non poteva che venir attratta fatal­mente dal potere costi­tuito, dalla forze dominati.

Una giu­sti­fi­ca­zione è stata data per moti­vare que­sto chiu­dersi nei palazzi della sini­stra di governo, richia­mando una auto­re­vole e tutt’altro che banale tra­di­zione poli­tica e cul­tu­rale ita­liana: l’autonomia della poli­tica come stru­mento per imporre il cam­bia­mento. Se non lo strappo rivo­lu­zio­na­rio, almeno le ragione del pro­gresso si sareb­bero potute affer­mare den­tro le isti­tu­zioni per poi con­qui­stare una società che non sem­pre dà prova di civiltà o di essere in sin­to­nia con i prin­cipi dell’eguaglianza e della libertà sociale. L’idea dun­que che si potesse «costruire» il popolo attra­verso la poli­tica dall’alto, l’intermediazione del lea­der. Lasciamo per­dere la discus­sione teo­rica, che coin­vol­ge­rebbe figure che hanno fatto la sto­ria della sini­stra del nostro paese (da Anto­nio Gram­sci a Mario Tronti) e che oggi tro­vano peral­tro nuove con­so­nanze (Erne­sto Laclau, Chan­tal Mouffe); limi­tia­moci a rile­vare quel che è stato l’effetto sul piano più stret­ta­mente poli­tico. La defi­ni­tiva cesura tra popolo e suoi rap­pre­sen­tanti.

Uno iato che si è sem­pre più esteso e che dimo­stra la mio­pia — il fal­li­mento — della classe diri­gente della sini­stra. Dimen­ti­chi di una vec­chia lezione della sto­ria: senza il «popolo» nel chiuso dei palazzi vin­cono gli inte­ressi costi­tuiti. Se non si voleva ricor­dare Peri­cle, sarebbe stato suf­fi­ciente non dimen­ti­care Berlinguer.

Per chi si pro­po­neva di tra­sfor­mare il reale, è stato que­sto l’errore più grave. È così che le «grandi» riforme pro­mosse dalla sini­stra hanno finito per peg­gio­rare le con­di­zioni del suo popolo, men­tre la crisi eco­no­mica impone ora le sue leggi e l’equilibrio dei bilanci pre­vale sulla tutela dei diritti fon­da­men­tali. In Ita­lia, ma non solo.

Il popolo della sini­stra nel frat­tempo s’è sper­duto, guarda altrove o non guarda più da nes­suna parte. È rima­sto solo il lea­der che pensa alla nazione, riflet­tendo su se stesso, sulla pro­pria imma­gine, come allo spec­chio.

Chi, nono­stante tutto, ha con­ser­vato uno spi­rito cri­tico ha pro­vato a rea­gire. Ha otte­nuto impor­tanti suc­cessi (il refe­ren­dum sull’acqua, quello sulle riforme costi­tu­zio­nali), ha com­bat­tuto con intran­si­genza (no Tav), ha matu­rato espe­rienze cul­tu­rali di rot­tura (i beni comuni). Tutte espe­rienze che hanno incon­trato però un limite: tutte hanno sot­to­va­lu­tato la que­stione della neces­sità di una rap­pre­sen­tanza poli­tica. Rima­nendo — per scelta o per obbligo — fuori dai palazzi, lon­tane dalla poli­tica isti­tu­zio­nale, le lotte più inno­va­tive e di rot­tura non sono riu­scite a ren­dersi ege­moni, anzi alla lunga hanno mostrato le pro­prie debo­lezze. Le vit­to­rie refe­ren­da­rie sono state pre­sto dimen­ti­cate e non hanno tro­vato un neces­sa­rio seguito isti­tu­zio­nale, le espe­rienze locali sono rima­ste tali e alla fine si con­dan­nano all’esaurimento.

Credo sia giunto il tempo per porre anche ai movi­menti la que­stione del rap­porto con il «potere» e la neces­sità della media­zione isti­tu­zio­nale delle lotte sociali. Ter­reno sci­vo­loso, non gra­dito a chi nella lotta esau­ri­sce il pro­prio oriz­zonte pole­mico. Anche in que­sto caso si è attinto a piene mani ad una tra­di­zione poli­tica e cul­tu­rale che ha attra­ver­sato l’intera sto­ria della sini­stra, quella più radi­cale e com­bat­tiva. Non sem­pre quella vin­cente. Così, l’autogoverno, la demo­cra­zia par­te­ci­pa­tiva, l’esaltazione del comune sono state uni­la­te­ral­mente assunte, senza nulla appren­dere dalle cri­ti­cità che la sto­ria ha evi­den­ziato, sin dalla comune di Parigi.

Ora siamo ad un bivio. Si potrebbe ripar­tire ponendo al cen­tro della nostra rifles­sione pro­prio la que­stione dei limiti dell’autonomia della poli­tica e quella della rap­pre­sen­tanza poli­tica. L’autonomia della poli­tica potrebbe essere intesa come capa­cità di pro­get­tare il futuro, distac­can­dosi dall’immediatamente rile­vante, men­tre la rap­pre­sen­tanza poli­tica dovrebbe essere assunta come la neces­sa­ria «misura» di que­sta capa­cità di pro­get­ta­zione entro un con­te­sto istituzionale.

Vediamo di sin­te­tiz­zare con una sola esem­pli­fi­ca­zione un discorso che meri­te­rebbe di essere altri­menti sviluppato.

Pen­siamo — ad esem­pio — alla riforma della costi­tu­zione. Se è vero, come su que­sto gior­nale abbiamo ripe­tuto tante volte, che la revi­sione in corso è espres­sione di un com­ples­sivo dise­gno regres­sivo, che, se appro­vata, ci poterà indie­tro nel tempo, ver­ti­ca­liz­zerà le dina­mi­che poli­ti­che, aprirà a sce­nari non ras­si­cu­ranti, se que­ste sono le nostre con­vin­zioni, come pos­siamo pen­sare che la solu­zione di ogni male sia far eleg­gere i sena­tori anzi­ché farli votare dai Con­si­gli regionali?

E se poi va a finire che il «prin­cipe» con­cede la gra­zia e accetta l’elezione diretta dei sena­tori avremmo per caso un buon Senato e una accet­ta­bile riforma del testo della costi­tu­zione? Ma non scher­ziamo. Avremmo sol­tanto allun­gato la nostra ago­nia e data nuova linfa al lea­der indi­scusso del pen­siero unico e di governo.

Alziamo allora lo sguardo e lot­tiamo per la nostra riforma, accet­tiamo e rilan­ciamo la sfida, mostrando ai finti inno­va­tori il nostro volto «rivo­lu­zio­na­rio». È vero, il bica­me­ra­li­smo per­fetto è da supe­rare, ma per ragioni oppo­ste a quelle che la reto­rica poli­tica domi­nante afferma. Va supe­rato sia per affer­mare la cen­tra­lità del par­la­mento con­tro il domi­nio dell’esecutivo sia per ridare un senso alla rap­pre­sen­tanza poli­tica offesa da un sistema elet­to­rale che ne nega il valore subli­man­dolo nel fetic­cio della gover­na­bi­lità. Che ci si batta allora per una solu­zione che meglio ha espresso nel corso della sto­ria que­sta dop­pia esi­genza: un sistema mono­ca­me­rale affian­cato da una legge elet­to­rale pro­por­zio­nale per rites­sere le fila della rap­pre­sen­tanza poli­tica strappata.

Sono pro­po­ste fuori dall’agenda poli­tica del momento. E dun­que qual­cuno si potrebbe chie­dere: chi ci ascol­te­rebbe? Ma per­ché, adesso chi ci ascolta? E poi, in fondo, dipen­derà da noi.

Se sapremo rac­con­tare una sto­ria per la quale valga la pena vivere, l’attenzione potremmo con­qui­starla. Potremmo, ad esem­pio, andare al refe­ren­dum costi­tu­zio­nale del pros­simo anno non per difen­dere un par­la­mento in ago­nia, ma per pro­vare a cam­biare lo stato di cose presenti.

Nella Gre­cia antica si distin­gueva tra la nuda vita (zoé) e la vita degna di essere vis­suta (bios). Più che chie­derci se c’è vita a sini­stra dovremmo inter­ro­garci su quale vita ci sia a sinistra.

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