Ciò di cui più abbiamo bisogno è produrre nuovi punti di vista, non arrenderci al presente, riuscire ad incrinare l’unica narrazione rimasta.
La sinistra è morta se non riesce ad immaginare il cambiamento, ad interpretare non solo un generico e diffuso malessere, ma a prospettare un futuro diverso. Da troppo tempo, invece, il pensiero critico ha perduto la sua radicalità, schiacciata dal peso del presente. I diritti arretrano, le nostre forze scemano. Se siamo giunti sin qui è inutile negare che sia anche per colpa nostra: non abbiamo saputo interpretare il reale, ci siamo chiusi in difesa. Ma non è servito a nulla, nulla abbiamo difeso.
Ora, che poco abbiamo da perdere, dovremmo cercare di uscire dalla palude, per misurarci con le nostre idee e non più solo con la razionalità del reale. Dovremmo riprendere seriamente in considerazione la distinzione tra strategia e tattica (la doppiezza togliattiana?). La prima per la ricostruzione di una prospettiva di sinistra che sappia aggregare le forze politiche e i soggetti sociali necessari per il cambiamento futuro; la seconda per resistere e per contrastare la politica dominante.
La mia impressione è che una grande colpa della sinistra sia stata quella di non credere in se stessa, nella sua capacità di cambiare. Gran parte di essa (la sinistra di governo) si è da tempo arresa, stanca di lottare, soddisfatta delle conquiste ottenute nel corso del Novecento, si è limitata a governare il presente, cercando — ben che fosse — di ostacolare gli spiriti più selvaggi, frenare gli arretramenti più vistosi. Alla fine, però, ha perduto se stessa. Rinunciando a produrre una sua narrazione, non poteva che venir attratta fatalmente dal potere costituito, dalla forze dominati.
Una giustificazione è stata data per motivare questo chiudersi nei palazzi della sinistra di governo, richiamando una autorevole e tutt’altro che banale tradizione politica e culturale italiana: l’autonomia della politica come strumento per imporre il cambiamento. Se non lo strappo rivoluzionario, almeno le ragione del progresso si sarebbero potute affermare dentro le istituzioni per poi conquistare una società che non sempre dà prova di civiltà o di essere in sintonia con i principi dell’eguaglianza e della libertà sociale. L’idea dunque che si potesse «costruire» il popolo attraverso la politica dall’alto, l’intermediazione del leader. Lasciamo perdere la discussione teorica, che coinvolgerebbe figure che hanno fatto la storia della sinistra del nostro paese (da Antonio Gramsci a Mario Tronti) e che oggi trovano peraltro nuove consonanze (Ernesto Laclau, Chantal Mouffe); limitiamoci a rilevare quel che è stato l’effetto sul piano più strettamente politico. La definitiva cesura tra popolo e suoi rappresentanti.
Uno iato che si è sempre più esteso e che dimostra la miopia — il fallimento — della classe dirigente della sinistra. Dimentichi di una vecchia lezione della storia: senza il «popolo» nel chiuso dei palazzi vincono gli interessi costituiti. Se non si voleva ricordare Pericle, sarebbe stato sufficiente non dimenticare Berlinguer.
Per chi si proponeva di trasformare il reale, è stato questo l’errore più grave. È così che le «grandi» riforme promosse dalla sinistra hanno finito per peggiorare le condizioni del suo popolo, mentre la crisi economica impone ora le sue leggi e l’equilibrio dei bilanci prevale sulla tutela dei diritti fondamentali. In Italia, ma non solo.
Il popolo della sinistra nel frattempo s’è sperduto, guarda altrove o non guarda più da nessuna parte. È rimasto solo il leader che pensa alla nazione, riflettendo su se stesso, sulla propria immagine, come allo specchio.
Chi, nonostante tutto, ha conservato uno spirito critico ha provato a reagire. Ha ottenuto importanti successi (il referendum sull’acqua, quello sulle riforme costituzionali), ha combattuto con intransigenza (no Tav), ha maturato esperienze culturali di rottura (i beni comuni). Tutte esperienze che hanno incontrato però un limite: tutte hanno sottovalutato la questione della necessità di una rappresentanza politica. Rimanendo — per scelta o per obbligo — fuori dai palazzi, lontane dalla politica istituzionale, le lotte più innovative e di rottura non sono riuscite a rendersi egemoni, anzi alla lunga hanno mostrato le proprie debolezze. Le vittorie referendarie sono state presto dimenticate e non hanno trovato un necessario seguito istituzionale, le esperienze locali sono rimaste tali e alla fine si condannano all’esaurimento.
Credo sia giunto il tempo per porre anche ai movimenti la questione del rapporto con il «potere» e la necessità della mediazione istituzionale delle lotte sociali. Terreno scivoloso, non gradito a chi nella lotta esaurisce il proprio orizzonte polemico. Anche in questo caso si è attinto a piene mani ad una tradizione politica e culturale che ha attraversato l’intera storia della sinistra, quella più radicale e combattiva. Non sempre quella vincente. Così, l’autogoverno, la democrazia partecipativa, l’esaltazione del comune sono state unilateralmente assunte, senza nulla apprendere dalle criticità che la storia ha evidenziato, sin dalla comune di Parigi.
Ora siamo ad un bivio. Si potrebbe ripartire ponendo al centro della nostra riflessione proprio la questione dei limiti dell’autonomia della politica e quella della rappresentanza politica. L’autonomia della politica potrebbe essere intesa come capacità di progettare il futuro, distaccandosi dall’immediatamente rilevante, mentre la rappresentanza politica dovrebbe essere assunta come la necessaria «misura» di questa capacità di progettazione entro un contesto istituzionale.
Vediamo di sintetizzare con una sola esemplificazione un discorso che meriterebbe di essere altrimenti sviluppato.
Pensiamo — ad esempio — alla riforma della costituzione. Se è vero, come su questo giornale abbiamo ripetuto tante volte, che la revisione in corso è espressione di un complessivo disegno regressivo, che, se approvata, ci poterà indietro nel tempo, verticalizzerà le dinamiche politiche, aprirà a scenari non rassicuranti, se queste sono le nostre convinzioni, come possiamo pensare che la soluzione di ogni male sia far eleggere i senatori anziché farli votare dai Consigli regionali?
E se poi va a finire che il «principe» concede la grazia e accetta l’elezione diretta dei senatori avremmo per caso un buon Senato e una accettabile riforma del testo della costituzione? Ma non scherziamo. Avremmo soltanto allungato la nostra agonia e data nuova linfa al leader indiscusso del pensiero unico e di governo.
Alziamo allora lo sguardo e lottiamo per la nostra riforma, accettiamo e rilanciamo la sfida, mostrando ai finti innovatori il nostro volto «rivoluzionario». È vero, il bicameralismo perfetto è da superare, ma per ragioni opposte a quelle che la retorica politica dominante afferma. Va superato sia per affermare la centralità del parlamento contro il dominio dell’esecutivo sia per ridare un senso alla rappresentanza politica offesa da un sistema elettorale che ne nega il valore sublimandolo nel feticcio della governabilità. Che ci si batta allora per una soluzione che meglio ha espresso nel corso della storia questa doppia esigenza: un sistema monocamerale affiancato da una legge elettorale proporzionale per ritessere le fila della rappresentanza politica strappata.
Sono proposte fuori dall’agenda politica del momento. E dunque qualcuno si potrebbe chiedere: chi ci ascolterebbe? Ma perché, adesso chi ci ascolta? E poi, in fondo, dipenderà da noi.
Se sapremo raccontare una storia per la quale valga la pena vivere, l’attenzione potremmo conquistarla. Potremmo, ad esempio, andare al referendum costituzionale del prossimo anno non per difendere un parlamento in agonia, ma per provare a cambiare lo stato di cose presenti.
Nella Grecia antica si distingueva tra la nuda vita (zoé) e la vita degna di essere vissuta (bios). Più che chiederci se c’è vita a sinistra dovremmo interrogarci su quale vita ci sia a sinistra.