Il manifesto, 7 luglio 2015
Le due ali politiche istituzionali fanno a gara per imporre i memorandum della Bce e del Fmi all’Europa. E chiudono gli occhi di fronte all’esercizio della democrazia che viene dalla Grecia
Il volto grigio e tirato di Martin Schulz, presidente dell’Europarlamento, costretto a balbettare il suo commento «istituzionale» al risultato del referendum greco è forse l’immagine più vivida dello stato in cui versa quella che fu la socialdemocrazia europea. Solo poche ore prima, a urne ancora aperte, era intervenuto, con un gesto inammissibile per il ruolo che ricopre, a sostegno dello schieramento del sì. Per poi, una volta sconfitta la sua «parte», offrire, indecentemente, un sostegno «umanitario» alla Grecia.
Herr Schulz, le cui dimissioni dovrebbero essere cosa scontata, rispecchia tuttavia pienamente l’idea di democrazia prevalente nelle segreterie delle formazioni socialdemocratiche europee. Il suo partito, la Spd, si è speso tanto accanitamente in favore del rigore e delle politiche di austerità da ostacolare perfino quel tanto di aperture che la cancelliera Angela Merkel avrebbe potuto azzardare in alcune fasi del negoziato con Atene.
Neanche per un istante la dirigenza socialdemocratica, in buona compagnia di italiani e francesi, si è discostata, sia pur di poco, da quello schema che pone al centro della costruzione europea il rapporto tra debitori e creditori e il risparmio a discapito dei redditi e dei diritti. Cosicché oggi la socialdemocrazia tedesca è tagliata fuori, per eccesso di zelo, (e per fortuna) da qualunque possibile ruolo nella ripresa di un negoziato con Atene. Come una cantilena, ormai stantia, si limita a ripetere che il referendum greco ha reso la ricerca di una soluzione ancora più difficile, per non dire impossibile. Ma si guarda bene dall’aggiungere che questa «difficoltà» altro non è che il rifiuto di Syriza di governare secondo regole ostili o indifferenti alla volontà dei governati, come sarebbe auspicabile secondo la governance europea.
L’Europa sarebbe insomma minacciata da una overdose di democrazia che rischia di legare le mani dei governi. E non è un caso che nell’Italia delle «riforme» si lavori a rendere sempre più difficoltoso il ricorso allo strumento referendario, suscettibile di scompaginare i giochi dell’esecutivo. Oltre che sociale, la socialdemocrazia ha dunque cessato anche di essere democratica.
Resta così, nel ruolo sempre più patetico e improbabile di «pontiere», la figura più pallida e impopolare che i partiti socialisti d’Europa abbiano mai espresso: François Hollande. Mezzo mediterraneo e mezzo governante sempre più in bilico di una grande nazione decisiva per l’Unione europea, ma del tutto subalterno a quella visione tedesca del Vecchio continente, che un tempo preoccupava non poco i governi di Parigi. La Francia, da tempo, più che una soluzione è diventata una parte rilevante del problema.
È il paese che ha votato no alla Costituzione politica europea, affossandone definitivamente perfino l’idea, ma che in nessun modo si è poi spesa nel correggerne la costituzione materiale, ossia i rapporti di forze economici e gli assetti gerarchici che ne configurano l’equilibrio: «No alla Costituzione, si ai Memorandum», questa la lieta novella che proviene da Parigi. Nel repubblicanesimo francese si annidano molti più sentimenti antieuropei di quanti se ne possano incontrare dalle parti di Atene. E non è sorprendente che nel suo seno prosperi e si sviluppi una forza come il Front National di Marine le Pen. Né che la socialdemocrazia francese si riveli del tutto incapace di farvi in alcun modo fronte.
Sotto un velo retorico sempre più sottile e trasparente l’Unione va trasformandosi in un tavolo negoziale tra criptosciovinismi di potenza diseguale, con l’entusiastica adesione delle socialdemocrazie in costante declino di credito elettorale. Affannato e petulante, truccando spudoratamente i numeri del «successo», il nostro Pd partecipa alla gara nelle seconde file. La «priorità dell’interesse nazionale» non è più l’evocazione impronunciabile di una storia obbrobriosa, ma un buon argomento da campagna elettorale. In un siffatto contesto in cui l’ipocrisia si fa necessità storica, diventa essenziale sostenere che il «no» uscito trionfante dal referendum greco è un no all’Europa e una delle molte insorgenze «populiste» o «rossobrune» che minano la costruzione europea e aprono sull’ignoto.
Sembrerebbe esservi una singolare teoria che circola da qualche tempo nei principali media europei e nel dibattito pubblico. Se una volta andavano in gran voga gli «opposti estremismi» ora sembra venuto il tempo dei «convergenti estremismi» che, da destra e da sinistra, alleandosi fra loro, puntano a demolire la stabilità del Vecchio continente e a indebolirne le auree regole. Ogni voce critica viene automaticamente attribuita a questo inquietante scenario. Non manca nemmeno chi annovera Alba dorata tra i sostenitori di Tsipras, comunque ricorrentemente assimilato al Front national, al Movimento5 stelle o ai nazionalisti polacchi. Naturalmente in compagnia del temutissimo Podemos.
Questa opera di disinformazione ha raggiunto il parossismo alla vigilia del referendum in Grecia. Il quale esprimeva invece un punto irrinunciabile, ribadito con grandissima insistenza: la permanenza nell’Unione europea e la creazione di condizioni tali da non far dipendere questa appartenenza da un rapporto tra creditori e debitori universalmente riconosciuto come insostenibile. Ciò che risulta veramente indigeribile dell’esperienza greca è appunto il suo convinto europeismo. Il quale minaccerebbe non tanto i trattati europei quanto gli interessi nazionali (sovente più ideologici che contabili) degli stati che governano di fatto l’Unione.
Se di «salto nel buio» si deve parlare non è certo riferendosi alla mossa referendaria di Tsipras, quanto alla caparbia difesa di uno squilibrio che sta spianando la strada alle peggiori forme di nazionalismo, alle quali la socialdemocrazia europea risponde facendosi a sua volta portavoce «ragionevole» dell’«interesse nazionale». E’ questa la deriva che sta minacciando l’Europa e che la crisi greca non ha certo prodotto, ma piuttosto chiaramente rivelato.
E’ IL TRACOLLO DEL SOCIALISMO EUROPEO
La valanga di «No» non è solo una vittoria del governo e del popolo greco. E’ una vittoria di tutti gli europei che non hanno voluto smettere di credere nella democrazia.
La paura è stata sconfitta. Clamorosamente. Il tentativo di seminare il terrore nell’elettorato da parte dei principali esponenti delle istituzioni europee, a cominciare dal governatore della Bce Mario Draghi (che togliendo l’ossigeno finanziario alle banche e al popolo greco si è assunto una responsabilità personale gravissima), è fallito. Occorrevano davvero degli «eroi omerici» per resistere a quel ricatto, e sono stati all’altezza della loro storia migliore. Hanno dimostrato che anche in tempi di crisi della politica, la «grande politica» è possibile. Perché è «grande politica» mostrare che la pratica della democrazia è possibile, in un contesto europeo che sembra aver dimenticato questo valore, e di fronte a oligarchie che non la tollerano e non perdono occasione per dimostrarlo. Ed è «grande politica» aver mostrato - da quella che potrebbe apparire un’estrema periferia del continente e che invece se ne rivela il vero centro - che l’architettura su cui si basa l’Unione europea non regge. Che va cambiata dalla radice. Pena la fine dell’Europa.
Dopo questo voto Alexis Tsipras assume statura e ruolo di leader europeo. Quel «ragazzo», come lo chiamano affettuosamente in patria, rappresenta tutti gli europei - e sono davvero tanti - che non si riconoscono in questa gestione inumana, arrogante, egoistica e irresponsabile da parte di coloro che - in nome di un dogma fallimentare - hanno portato l’Europa sull’orlo del disastro, tradendone gli ideali fondativi, rendendola odiosa agli occhi del suo stesso popolo. Dovremo d’ora in poi gridarlo forte, tutti insieme, con un coro transnazionale, che l’Europa è troppo importante per lasciarla nelle mani di oligarchi di tal fatta. Di figure dal profilo tremendamente basso, incapaci di visione, di sguardo, chiuse nella piccineria di un’esistente insostenibile nel futuro, anche nel più vicino, di fronte alle quali spicca, per differenza, la grandezza del gesto di Yanis Varoufakis - l’eroe di piazza Syntagma, l’uomo acclamato dal popolo del «No», un vincitore indiscusso - che si dimette per favorire un accordo che va nell’interesse del proprio popolo. Per togliere anche un briciolo di alibi ad avversari rancorosi e nella sostanza meschini, in una situazione che è, con tutta evidenza, durissima.
Il voto greco rivela anche il catastrofico collasso del socialismo europeo. La presa di posizione del vice-cancelliere tedesco Garbriel, schierato addirittura alla destra della Merkel a fare il lavoro sporco per lei – a ribadirne la «pedagogia imperialista» di cui nel suo stesso paese è accusata (Der Spiegel) -, è qualcosa di ancor più tragico del celebre voto dei crediti di guerra nel 1914, perché segna una assimilazione ormai senza più residui. La dichiarata fine di un’identità politica. Così come la vergognosa posizione assunta da Martin Schultz, offensiva dello stesso parlamento europeo che dovrebbe rappresentare, esempio dell’abisso in cui è caduta la socialdemocrazia tedesca ma anche dell’incapacità di ricoprire con dignità un ruolo istituzionale che dovrebbe essere rappresentativo di tutti. Un parlamento degno di questo nome non dovrebbe esitare nemmeno un giorno a chiederne le dimissioni. Per non parlare delle posizioni assunte dal presidente del consiglio italiano Matteo Renzi: la sua imbarazzante performance di fronte alla cancelliera Merkel, gratuita forma di servilismo a danno degli stessi interessi italiani, è il simbolo di un definitivo degrado politico, culturale e morale. Che ne vanifica ogni possibile aspirazione da «mediatore» di alcunché.
Da oggi incomincia una nuova storia per tutte le sinistre europee, a cominciare dalla nostra. I greci hanno aperto una breccia. Contro di loro si scaricherà la voglia di vendetta degli sconfitti, ancora increduli della propria sconfitta perché fiduciosi nell’onnipotenza dei propri mezzi. Tenteranno di continuare a usarli quei mezzi di dissuasione di massa. Tenteranno di prolungare il vero e proprio assedio di tipo medievale che hanno praticato nell’ultima settimana. Stringeranno ancora la garrota al collo dei greci per tentare di piegarne i negoziatori. Sta a tutti noi essere all’altezza del compito. Perché adesso tocca a noi fare la nostra parte, rompendo quell’assedio.
Facendo sentire forte la voce della vera Europa. Mobilitandoci perché è della nostra stessa pelle che si tratta.