L'Espresso, 14 Novembre 2017. Dopo avere spacciato il turismo come un'irrinunciabile risorsa economica e lasciato a divorare le nostre città, le proteste di cittadini e il degrado forse faranno cambiare tattica, con Barcellona che ci prova (i.b).
Da Brescia arriva una sentenza che può esser rivoluzionaria. Qualche giorno fa il comune è stato condannato a pagare 50.000 euro a due cittadini che l’avevano denunciato per non aver controllato gli schiamazzi della movida del centro. Fiorita nel linguaggio (si appella al “rumore antropico per gli schiamazzi di avventori di alcuni locali che stazionano nei pressi dei plateatici o dei locali su suolo pubblico”), la sentenza dà finalmente ragione ai cittadini angariati dal fracasso. Se dovesse fare giurisprudenza, avrebbero di che tremare i comuni di mezza Italia, anzi di mezza Europa.
Da tempo, da città diverse e lontane (dalla Liguria a Barcellona, da Venezia a Firenze, dalle Cinque Terre al Salento, da Roma come dal lago di Garda) arrivano ruggiti di protesta nei confronti delle invasioni di turisti, di vacanzieri e di frequentatori di festival: folle incontrollabili, danni a monumenti e spazi pubblici, fracasso, indisciplina e molestie, risentimento e ira dei residenti.
A Barcellona, i residenti e le autorità si sono coalizzati e per la prima volta in luglio si sono avute manifestazioni di piazza contro l’orda turistica: «vogliamo i rifugiati, non i turisti», dicevano i cartelloni, che si son visti in giro almeno fino a che il terribile attentato di metà agosto non ha spostato l’attenzione. Nel contempo, a Venezia, Firenze e Roma si segnalano numerosi i casi di danneggiamenti e esibizioni hot prodotti da visitatori fuori controllo. Venezia perde a vista d’occhio residenti e converte le abitazioni in stanze da affittare. In alcune città di mare si studiano regole per limitare gli accessi alle spiagge pubbliche. Proteste dello stesso tipo si levano da più parti a proposito dell’occupazione notturna delle città, ormai soffocate da festival, musiche, gente sbronza e code di automobili. Perfino in montagna si segnalano folle di scalatori improvvisati, che danneggiano l’ambiente e si cacciano in situazioni spesso fatali.
Questi fatti minuti rivelano una metamorfosi profonda di alcuni aspetti del vivere nella modernità. Siamo stati abituati per decenni a considerare turismo e entertainment come risorse economiche e forme importanti di socialità e cultura. Ora scopriamo che stanno cambiando natura e diventando intrusivi e distruttivi. Invece di servire alla cura e alla protezione dell’ambiente in cui si hanno luogo, lo lasciano degradato e danneggiato.
Come si spiega questa svolta? Alle spalle di tutto sta la metamorfosi dell’idea diffusa di tempo libero e di divertimento, che è cominciata negli anni Ottanta e continua ancora. Fino a tre generazioni fa, il tempo libero era un intervallo, di durata variabile, ricavato tra due fasi del lavoro. Serviva soprattutto per riposarsi, cioè non far niente e ritrovare così le forze e la voglia di ricominciare. Grandiosa conquista delle democrazie occidentali con la spinta del socialismo umanitario, il tempo libero si deve alle lunghe lotte sindacali sviluppate tra Otto e Novecento per assicurare ai lavoratori dei giorni di riposo a paga intera. Inevitabilmente, anche nell’uso del tempo libero si riflettevano le differenze di classe: gli umili lo passavano nello stesso posto in cui abitavano, magari mandando i figli da uno zio o da una nonna; i benestanti andavano in vacanza o (come si diceva allora) in villeggiatura cambiando sede e ambiente.
Come in altri ambiti, anche qui la modernità ha cambiato le carte in tavola. Anzitutto, una cospirazione di fattori ha trasformato il tempo libero in tempo-sempre-occupato. Al non far niente s’è sostituito il divertimento. «Sentire la vita, divertirsi» precisa Kant nella sua “Antropologia pragmatica” «non è altro che sentirsi continuamente spinto a uscire dalla condizione presente (la quale deve quindi essere un dolore che spesso ritorna)». Sarà per il bisogno di uscire da questo “dolore” che il riposo è stato sostituito dalla spinta a partire a ogni costo e in ogni momento, cioè, in fondo, a stancarsi sotto altra forma? La villeggiatura (prima di sparire anche come termine) si è trasformata in viaggio, experience e quasi diritto politico; le plaghe più impervie e remote del pianeta sono diventate improvvisamente desiderabili per effetto delle culture alternative.
Negli anni Settanta giovani alternativi, figli dei fiori, rasta o new age hanno inventato la cultura del viaggio estremo, aprendo piste verso paesi del tutto ignoti fin allora. A loro si sono poi aggregati anche i borghesi, medi e piccoli, e perfino piccolissimi, incoraggiati dalla nascita delle compagnie low cost. A quel punto (siamo agli anni Novanta del secolo scorso) il viaggio, il movimento, lo spostamento nei minimi intervalli di tempo è diventato un fenomeno frenetico, travolgente, inarrestabile, che coinvolge tutti e tutto. Inoltre, se il viaggio di un tempo si concludeva con un ritorno (alla maniera di Ulisse: come racconta Eric J. Leed nel suo bellissimo “La mente del viaggiatore”, il Mulino), ora sfocia in un altro viaggio. I paesi che non hanno risorse adatte, se le creano. Si inventano dal nulla ambienti fake con la neve in pieno deserto o isole artificiali per costruirci grattacieli (come ad Abu Dhabi).
La rete ha esaltato questo schema oltre misura: fornisce all’istante informazioni su paesi sconosciuti, offre sistemazioni di ogni tipo, confronta prezzi e favorisce amicizie per scambi di case e magari di coppie. In sostanza, erode il senso del reale, del distante e del diverso, banalizza la storia e la geografia, rende il pianeta ovvio e fake, fa sembrare tutto facile e elimina l’elemento di ignoto e di pericolo che il viaggio ha sempre contenuto. Oggi “si fa” (il termine tecnico è questo) la Thailandia o il Nepal con la stessa scioltezza con cui una volta si andava da Roma a Ostia; si sverna a Cuba o in Costa Rica; si fanno viaggi di nozze nelle foreste del Belize; si approfitta di ogni ponte per “fare (o farsi)” una riviera corallina australe o pernottare in mezzo al deserto. La funzione di scoperta è estinta: tolta forse la foresta pluviale e il centro del Congo, si parte sapendo già tutto. Naturalmente, quando il remoto e l’arduo diventano prossimo e banale, ci si arriva con la stessa sciatta incoscienza con cui si frequenta ciò che è prossimo e usuale, anche se Rangoon o il Nepal non sembrerebbero poter essere affrontati con lo stesso spirito, le stesse aspettative e lo stesso piglio con cui si va a Riccione o a Genzano.
A quest’impetuoso trend si sono accodate le amministrazioni pubbliche, che, sviluppando con malagrazia un’idea geniale di Renato Nicolini (Roma, anni Settanta), hanno deciso di trasformare le città in scenari di eventi di ogni tipo, preferibilmente fragorosi. Alcune città (come Gallipoli in Italia, Magalluf a Mallorca, Santorini in Grecia e tante altre) si sono immolate deliberatamente, proclamandosi luoghi di movida h24. A Parigi, la sindaca Anne Hidalgo ha creato perfino un “delegato alla notte”, anche se la cittadinanza comincia a non poterne più delle feste continue.
È la completa carnevalizzazione del mondo: ogni luogo, momento, monumento, risorsa, paesaggio è fatto per divertirsi. Il divertimento è ininterrotto, anche se dovesse produrre rovine, oltre che mostri. Sarà forse per il motivo che suggeriva l’acuto Kant (che non era mai stato in vacanza in vita sua), cioè per evitare «il vuoto di sensazioni in sé», che «desta orrore (horror vacui) e quasi il presentimento di una lunga morte»? Blaise Pascal sosteneva che «tutte le infelicità dell’uomo derivano da una sola cosa, cioè dal non saper restare in riposo in una stanza». Di certo esagerava. Ma con uguale certezza esagerano i milioni di turisti e movidari che, con la complicità di molti amministratori, trattano il resto del mondo come la loro stanza (a volte come la loro latrina) e non si curano neanche di lasciarla in ordine quando escono.