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Andrea Manzella
Il teorema del federalismo
30 Gennaio 2009
Articoli del 2009
Perché questa riforma federalista dissipatrice e disgregatrice sia governata, occorre una riforma del Parlamento. Da la Repubblica, 30 gennaio 2009 (m.p.g.)

Si può costruire un federalismo fiscale senza parlamento? Sembrerebbe di sì, dato che nel progetto approvato dal Senato c’è, al suo posto, un buco nero nel tessuto istituzionale della Repubblica. Il bello è che il progetto è passato con giuste, reciproche lodi sul "metodo parlamentare" che ne ha consentito una quasi completa riscrittura rispetto a quello originariamente uscito dal consiglio dei Ministri. Tutto vero. Senonché, alla fine, si è fabbricato qualcosa in cui solo una commissione bicamerale, con tenui poteri consultivi, sembra inserita – come un appunto – per ricordare che sì, insomma, in qualsiasi posto del mondo e delle costituzioni, un meccanismo di tanto forti e vasti poteri dei governi territoriali può funzionare solo con una garanzia parlamentare che lo faccia vivere ogni giorno: e non solo al momento della nascita.

Naturalmente, poiché ogni promessa politica non è un debito, il governo ha promesso che la "Camera delle autonomie" un giorno o l’altro verrà fuori (e non si sa come). La situazione è simile a quella della vendita della carrozzeria di un’auto con l’idea di un motore futuro, ma ignoto. Intanto, c’è il pagamento del prezzo.

Perché vi è la necessità di un "cuore" parlamentare nel progetto? Perché quello approvato dal Senato è solo un modello astratto fatto di ipotesi di combinazioni tributarie senza cifre né percentuali. E’ l’enunciazione di un teorema di interdipendenza di risorse senza dimostrazione di effettive compatibilità tra dare e avere nel congegno immaginato. E’ una scommessa sull’aggiustamento di fabbisogni finanziari incerti a competenze giuridiche indefinite dei governi territoriali.

Con il consueto brillante incalzare argomentativo, il ministro dell’economia ha certificato in Senato l’incertezza "a questa altezza di tempo". "Abbiamo dodici tipi principali di tributo in gioco; cinque soggetti politici titolari dei cespiti tributari; undici tra criteri e principi e un numero non ancora specificato di decreti attuativi". Ed ha anche detto: "è difficile ragionare in termini di meccanismo di finanziamento se non è stato prima definito il costo standard, che è la base da cui partire". Certo, ha assicurato che "i dati sono necessari e possibili decreto per decreto", "ad ogni passo". Ma ha anche detto che "le variabili che devono essere conteggiate, interagiscono tra di loro essendo interdipendenti e coniugate"…

E’ di fronte a tutto questo che il Parlamento è "disarmato", come ha sostenuto l’opposizione in Aula (anche perché non si è voluto attivare la commissione "mista" con poteri procedurali, già costituzionalmente prevista). Il che significa che malgrado la giudiziosa introduzione di regole e formule di garanzia – per patti di convergenza, per perequazione di infrastrutture, per la pressione fiscale complessiva (ma sul deficit è allarme a Bruxelles) – sarà, alla fine, la forza politica di chi farà i decreti di attuazione ad avere la meglio. E non si potrà affidare il tutto ad un piramidale contenzioso costituzionale.

La verità è che il funzionamento di un sistema di tale complessità istituzionale e fiscale, per di più "in un contesto di crisi", richiede una nuova organizzazione funzionale del parlamento. Richiede, appunto, che uno dei suoi rami sia capace di reggere il filo coerente delle cento intese di calcolo e di perequazione tra Stato e regioni (ordinarie e "speciali"), tra regioni e regioni, tra comuni e regioni. Un ramo capace anche di controllare i nuovi equilibri di sistema e la loro compatibilità con le responsabilità "europee" di contabilità finanziaria e di tenuta monetaria. Un ramo, infine, capace di districare il groviglio di funzioni tra i vari livelli di governo, senza aggravare la Corte costituzionale di compiti di regolazione costituzionale, più che di giurisdizione. Solo così si potrà inserire nel progetto una effettiva dimensione parlamentare: di un parlamento, insomma, non "federale" ma "federatore".

E’ inutile nasconderlo. Il progetto approvato, come ha scritto Eugenio Scalfari, "è un manifesto ideologico più che una legge". Reca dunque sottesa – anche soltanto come scenario Potiomkim, come canovaccio di rappresentazione, come "effetto speciale" – una spinta divaricatrice che ha bisogno di un contropotere nazionale per non diventare disgregatrice. Lo Stato accentratore della finanza derivata è ormai un modello che, giustamente, non piace a nessuno. Ma, allora, è necessario un luogo nella Costituzione dove unità e indivisibilità della Repubblica si trasformino da concetti retorici in vincoli effettivi per l’affollato pluralismo italiano. E questo luogo non può essere che un parlamento riorganizzato: l’idea che la ripartizione delle risorse pubbliche possa farsi fuori dalla vista della rappresentanza politica è di per sé una regressione pre-moderna.

Perché hanno certo una loro verità le analisi sulle crisi del parlamento. Prima, a causa della partitocrazia e ora per la fine dei partiti. Prima, per le "degenerazioni" del parlamentarismo ed oggi per le "degenerazioni" del potere di governo in parlamento. Prima, per il voto segreto ed ora per il non più libero mandato parlamentare. Prima, per l’eccesso di proporzionalismo ed oggi per gli eccessi del maggioritario. E così via. Senonché, proprio in un caso come questo del "federalismo fiscale", si capisce che il meccanismo parlamentare è anche qualcosa di altro: e ancora vitale.

E’ il crocicchio in cui istituzioni lontane trovano una formula compositoria fra di loro e si incontrano con le tante realtà del territorio italiano. Il punto in cui la rappresentanza nazionale, di cui parla la Costituzione, acquista una sua verità proprio nel confronto tra interessi parziali e separanti. Il momento in cui la politica, con autorità costituzionale, riguadagna le sue ragioni di fronte alle tante commissioni di tecnici e di esperti.

Certo. La società si è fatta complicata e ancora più la sua rappresentanza rispetto ad una istituzione secolare. Accanto alla classica forma di democrazia rappresentativa, la politica può oggi organizzarsi con altri mezzi sociali. Il ritrovarsi e aggrupparsi nel web sembra oggi più naturale che la via dell’associazione in partiti. La grande campagna elettorale americana, appena conclusa, ha segnato la svolta. Ma anche lo sbocco della nuova democrazia partecipativa ha bisogno del Parlamento, per non fermarsi al momento elettorale. La richiesta è ora di una democrazia continua. Cioè di una democrazia non essiccata dai lunghi intervalli fra un’elezione e l’altra: ma nutrita di dialogo permanente con il corpo elettorale e le identità territoriali. Non in esecuzione di sondaggi ma per creare politiche e opinioni: in uno spazio virtuale che solo il Parlamento può far diventare reale.

Ecco perché in un progetto di coordinamento di autonomie territoriali che non fosse solo un indeterminato e sospettoso disegno di spartizione di soldi pubblici, questa idea nuova (e antica) di parlamento avrebbe dovuto essere il centro. Ma, forse, non è ancora troppo tardi. Non significa buttare via il lavoro fatto se si cercherà di recuperarlo, con vincoli istituzionali e non vaghe promesse, al senso unitario di una Repubblica parlamentare.

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