Se proviamo ad interrogare il sito-database gestito dall’ong Grain (http://farmlandgrab.org), utile a monitorare le operazioni di acquisizioni di terra in corso, in giro per il mondo, abbiamo l’impressione di trovarci di fronte ad una partita a risiko lasciata a metà. Ma questo non è un gioco da tavolo, è piuttosto il “risiko della terra” (Roiatti F., 2009, Il nuovo colonialismo, Università Bocconi editore, Milano). E soprattutto, non sono i dadi a decidere la sorte dei concorrenti e perciò dei rispettivi territori, bensì il denaro. Il denaro usato dai paesi più ricchi, per sfruttare il suolo-merce dei paesi più poveri, che proprio in virtù di questa condizione sono costretti a privarsene. Il fenomeno è detto land grabbing (“appropriazione dei terreni”). Nel dettaglio si tratta di una pratica basata sull’acquisto, o ad ogni modo l’affitto a lungo termine (dai 40/50 e fino a 99 anni), di grandi estensioni di terreni in paesi poveri con lo scopo di adibirli a coltivazioni agricole. Ma, punto essenziale, le relative produzioni sono essenzialmente destinate all’esportazione intercontinentale. I paesi costretti ad appendere il cartello "vendesi" sulle proprie terre per privarsi del suolo, la più basilare delle risorse, in molti casi rappresentano le emergenze umanitarie del pianeta, e la maggioranza dei contratti finisce per coinvolgere i governi compresi nella lista dei paesi più corrotti (perciò nella sostanza più deboli) elaborata dall’ ong Trasparency International. Le multinazionali che ridisegnano la mappa del mondo acquistando, fanno invece capo a Stati Uniti ed Europa, ed in modo particolare ai paesi emergenti dell’Asia, Medioriente ed America Latina.
Proviamo a vedere i numeri di questa partita. Il recente report della International Land Coalition (Anseeuw W., Alden Wily L., Cotula L., Taylor M., 2012, Land Rights and the Rush for Land: Findings of the Global Commercial Pressures on Land Research Project, ILC, Roma) parla chiaro. Facendo riferimento agli anni compresi fra il 2000 ed il 2007 il fenomeno è lentamente cresciuto, facendo registrare alla fine del periodo contratti che hanno assorbito 10,4 mln di ettari di suolo. Il fenomeno ha poi subito un’impennata improvvisa, nel triennio 2008-10, che ha fatto registrare cessioni per ben 44,3 mln di ettari (Grafico 1).
Ad oggi sarebbero circa di 203 mln gli ettari di terra venduta, o ad ogni modo ceduta, per questa pratica (tabella 1)
Tabella 1. Acquisizioni di suolo al 2012 (per continenti)
Africa: 134,5 mln Ha; 66,49%
Asia: 43,5 mln Ha; 21,50%
America:18,9 mln Ha; 9,34%
Europa: 4,7 mln Ha; 2,32%
Oceania: 0,7 mln Ha; 0,35%
Fonte: ns. elaborazione su dati di Anseeuw et. al. 2012
La brusca crescita del fenomeno è collegata a tre ordini di questioni. La sicurezza alimentare, nel senso che la domanda mondiale di cibo si estende quantitativamente e si articola qualitatativamente, mentre le superfici coltivabili sono più o meno sempre le stesse, l’impennata dei prezzi delle commodities agricole del 2008 legata alla debordante finanziarizzazione del loro mercato, ed indirettamente la produzione dei biocarburanti soggetta alle direttive americane ed europee che impongono alle multinazionali del petrolio la vendita di quote fisse di questo tipo di carburanti, incentivandone la produzione (Grafico 2).
Secondo stime del Global Land Tool Network attraverso questa pratica circa 5 mln di persone in media ogni anni subiscono conseguenze legate agli espropri di terra (GLTN, 2008, Secure Land Rights for All, UN-HABITAT, Nairobi). Ma questo non è tutto. Sono piuttosto le conseguenze indirette a risultare più preoccupanti. Infatti attraverso questa pratica viene negato il pubblico accesso alle risorse che presuppongono una detenzione, un utilizzo e una gestione collettiva. Le popolazioni insediate si trovano costrette ad allontanarsi dalla loro terra, consentendo l’eliminazione del “controllo sociale” sullo sfruttamento delle risorse che caratterizza ogni gestione collettiva del suolo. Tende a scomparire l’agricoltura differenziata di carattere storico (che provvedeva a molteplici esigenze e rivestiva diverse funzioni), sostituita con le monocolture intensive, utili a soddisfare unicamente le richieste del mercato in termini di materie prime e di beni commerciabili. Più in generale si consolida un immaginario egemonico, che spinge verso il rifiuto a riconoscere l’esistenza di qualsiasi pratica d’uso del suolo esterna al mercato, e la sostituzione degli “interessi individuali” a ogni forma di “interesse comune”.
Dunque, il suolo. Un concetto che viene da lontano e che nasconde, dietro molteplici declinazioni disciplinari, una storia in gran parte sconosciuta (Bevilacqua P., 2004, “Il suolo: una storia sconosciuta”, in I frutti di Demetra, n. 4), e soprattutto un’ideologia che ha saputo imporsi. In riferimento all’ambito disciplinare dell’urbanistica, la maschera mimetica del concetto di suolo che rinvia continuatamene ad altro da sé (territorio, ambiente, paesaggio, etc.), ha permesso di celare la sua consolidata figura di “bene di mercato”; così, esso finisce per essere il più vago e incerto fra i termini centrali nel lessico urbanistico, nonostante continui a rappresentare il principale elemento concettuale ed operativo posto alla base dell’epistemologia disciplinare. A mio avviso, troppo spesso le molteplici linee di elaborazione sul tema evitano di porre la questione di fondo che riguarda la sua attuale piegatura ideologica e culturale, la sua “essenza” cioè di mero elemento passivo, di banale merce; e, di conseguenza, rinunciano ad ogni obiettivo teso a scardinare i processi che hanno contribuito a determinarla. E questa tendenza fatta da un lato di inconsapevolezza e dall’altro di accettazione della visione dominante del mondo rende immanente e naturalizza, l’attuale stato delle cose. Fino al grottesco.
Attraverso la recente inchiesta “Corsa alla terra” di Piero Riccardi per Report (Riccardi P., 2011, “Corsa alla terra”, in Gabanelli M., condotto da, Report, Rai Tre, puntata trasmessa il 18 dicembre), scopriamo il punto di vista di Klaus Deininger (capo economista di Banca Mondiale) riguardo alla pratica del land grabbing «[…] rispetto a 3 o 5 anni fa, prima di questa ondata di investimenti nessuno era realmente interessato all’agricoltura. Era un’industria al tramonto, un’attività considerata poco sexy. E’ cambiato molto da allora. E penso che sia uno sviluppo davvero positivo, perché saremo in grado di aiutare in maniera significativa i poveri». Ma è questa una scelta, camuffata dalla presunta necessità di risolvere il problema della fame nel mondo, che proprio non mi convince. A mio avviso occorre porre a corollario di ogni prospettiva politica la necessità di indicare il superamento da una parte della nozione di sviluppo inteso come incremento indefinito della mercificazione, e dall’altra della stessa nozione di crescita intesa, di fatto, come uno stato naturale e positivo. Ciò è tanto più urgente nella misura in cui si ha a che fare con un Terzo mondo, già messo in ginocchio dalla fame, e che peraltro in termini culturali risulta legato all’idea del limite e della sussistenza, piuttosto che a quella di crescita indefinita (Figura).
Fonte: Cartografare il presente, http://www.cartografareilpresente.org (Nives Lòpez Izquierdo, Terra e povertà in Africa, 2009)
In questo senso occorre porre al centro delle elaborazioni e delle pratiche urbanistiche un punto di vista fondativo: la concezione del suolo come bene comune. Un’istanza questa dei beni comuni che, ancorché “tecnicamente amorfa” (Mattei U., 2001, Beni comuni. Un manifesto, Laterza Roma-Bari), dovrebbe costituire un nodo centrale nel dibattito sui “destini” dell’urbanistica e, più in generale, sui nuovi paradigmi per una società autenticamente consapevole e autodeterminata. Questa prospettiva di ricerca del suolo come bene comune ci permette invece di innescare una dinamica tesa a sottrarre il suolo alle logiche di mercato che hanno determinato negli ultimi decenni non solo una inesorabile e progressiva cannibalizzazione del suolo, ma anche una completa espropriazione di ogni significato “collettivo”. Ciò comporta dare centralità alle relazioni di prossimità tra abitanti e risorse locali, ricostruire matrici identitarie, mettere in primo piano il valore costitutivo, etico dei rapporti sociali e della solidarietà, lavorando per riaffermare una progettualità collettiva in grado di ridefinire il futuro del proprio lavoro e del proprio abitare.
Oggi il dibattito sui beni comuni è sicuramente più maturo. Il tema della “tutela dei beni comuni” ossia quell’insieme di pratiche legate ad interpretare criticamente questioni come la privatizzazione delle risorse naturali, la progressiva erosione dei beni e dei servizi pubblici, l’indebolimento dei meccanismi democratici di controllo, le restrizioni legali sul diritto d'autore sui brevetti e marchi commerciali informano il dibattito scientifico nazionale ed internazionale. Ed in particolare la questione del suolo come bene comune, e per traslato l’interpretazione in termini strategici del suo controllo (dal punto di vista della sua produzione e della sua riproduzione) entra a pieno titolo fra i termini del dibattito urbanistico (Caridi G., 2012, Suolo. Bene comune vs merce, Città del Sole, Reggio Calabria). Ciò vale, in qualche modo, anche in relazione alle recenti posizioni in merito espresse anche dall’INU che fanno riferimento alla “mancata acquisizione dal vigente sistema normativo del significato di ‘bene comune’ che il suolo indubitabilmente assume” (AA. VV., a cura di 2011, Rapporto sul consumo di suolo 2010, Inu edizioni, Roma). Questa prospettiva di ricerca permette di assicurare alle comunità insediate un controllo consapevole e democratico del suolo, con l’intenzione di rimuovere le disuguaglianze legate al suo accesso/controllo. Mentre la Banca Mondiale continua ad affermare che questo “interesse crescente per le terre agricole” (World Bank, 2011, Rising Global Interest in Farmland, Washington D.C) non costituisce un vero e proprio problema gli indignados della terra di Africa, Asia ed America latina continuano ad organizzarsi e a lottare per difendere il proprio suolo, e con esso i diritti al lavoro, al cibo ed alla sopravvivenza. La realtà è cruda ed occorre conoscerla per modificarla, se vogliamo modificarla.
Giuseppe Caridi è architetto, dottore di ricerca in “Pianificazione e progettazione della città mediterranea”
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