Quello che sta avvenendo in Italia negli ultimi giorni due congressi che sciolgono al tempo stesso Democratici di Sinistra e Margherita, per creare un comune partito che si chiamerà democratico viene spesso descritto come normalizzazione dell’Italia, come suo vero ingresso politico in Europa dopo l’ingresso economico nell’euro. In parte forse è vero: una storia fatta di frammentazioni e flebile interesse generale diventa più simile alle esperienze europee. Per inciso, va ricordato che questo doppio movimento verso l’euro, verso una democrazia dell’alternanza alimentata da partiti più grandi e semplici è stato voluto da Prodi.
E da chi gli è stato vicino per decenni. Già nel gennaio 2000, in un’intervista a Gad Lerner, Arturo Parisi si rivolse al segretario dei Ds Veltroni con il fatidico invito («Sciogliamoci!»). Non fu ascoltato, e quel che temeva la sconfitta nel 2001 s’avverò. Ma la normalità europea che si usa invocare ha qualcosa di posticcio, somiglia molto a un luogo comune. L’Europa non è quell’approdo esemplare che tanti descrivono, e la sua normalità è piuttosto un’abitudine inerte che si sbriciola. È anch’essa in cerca di nuovi pensieri, e minacciata dall’antipolitica, dall’intorpidimento mentale, da un passato che non arricchisce più (l’impoverirsi dei Popolari è significativo). È una normalità rattrappita in Inghilterra come in Germania, e in queste ore lo è più che mai alla vigilia delle presidenziali in Francia: un paese dove sinistra e destra si contrappongono senza essersi rinnovate in profondità, ma avendo solo cambiato facce (la faccia femminile di Ségolène; la faccia grintosa di Sarkozy, che incute crescente paura proprio perché annuncia il nuovo alla maniera di Bush, fondandolo sulla prepotenza d’un carattere instabile). Sono forze aggrappate a tic del passato, anche quando denunciano le burocrazie partitiche. Ségolène Royal ha capito alcune cose meglio di altri, aderendo al metodo delle primarie, ma la sostanza esita a vederla e la sostanza è: il socialismo da solo non vince, la vecchia alleanza mitterrandiana coi comunisti non è più maggioritaria.
L’affermarsi del moderato François Bayrou nasce da queste cecità, che il sociologo Touraine ha chiamato, in un’intervista con Domenico Quirico su questo giornale, l’agonia del partito socialista («La Francia è il solo paese europeo che ha mantenuto costantemente, dal Fronte Popolare a Mitterrand, una sinistra rivoluzionaria (...) in una situazione non rivoluzionaria anzi generalmente molto moderata, esitante»). Quest’agonia è al centro delle elezioni, e Bayrou non è semplicemente figlio delle disillusioni e dell’antipolitica. Non stiamo neppure assistendo a una primaria nella destra, come scrive Jean-Marie Colombani, direttore di Le Monde. Anche se il partito di Bayrou ha radici a destra, la primaria avviene a sinistra visto che i consensi a Bayrou vengono essenzialmente da lì. Quel che in Italia si sta costruendo da dodici anni, con l’Ulivo, in Francia avviene a caldo, sulla scia dello spavento suscitato da Sarkozy. Senza confessarselo, le sue sinistre cercano le vie che l’Italia prepara da tempo e che oggi perfeziona.
Da questo punto di vista l’esperimento italiano è fondamentale per l’Europa. Questo sciogliersi dei vecchi partiti, questo riesame della storia, questa volontà di creare non un nuovo partito ma un partito nuovo, sono ambizioni di cui anche l’Europa ha bisogno. È il motivo per cui ha poco senso e poco interesse sapere a quale gruppo europeo socialista o liberaldemocratico apparterrà il partito democratico. La diatriba fra Ds e Margherita è oggi insensata perché anche in Europa c’è bisogno di revisioni, rifondazioni, come giustamente osserva Prodi. Il secco no di Rutelli ai Socialisti Europei che si contrappone alla volontà Ds di restare nel Pse inquieta per altri motivi: perché indica l’attaccamento di ciascuno alle proprie oligarchie e roccheforti, confermando le difficoltà dello scioglimento. Solo il giorno in cui i due partiti diranno che anche in Europa intendono reinventare partiti e coalizioni, secondo linee divisorie che non saranno più tra socialisti e liberali ma tra europeisti e non europeisti, il partito democratico apparirà, in Italia, una novità riformatrice non decisa dai vertici.
Tutte le parole rischiano l’insignificanza dell’ovvio, se usate troppo facilmente. Secondo Confucio gli uomini smarriscono addirittura la libertà, quando le parole perdono senso. Tra esse c’è anche il vocabolo scioglimento: delle tradizioni socialiste, o del cattolicesimo politico. Il vocabolo è forte, drammatico, e la discussione nel congresso Ds l’ha dimostrato: è stata una discussione profonda perché c’era consapevolezza della gravità di questo sciogliersi. La relazione di Piero Fassino è un testo da leggere e rileggere: un analogo rimettersi in causa è raro nella sinistra europea, e in Francia è impensabile un’adesione così forte a quel che vi fu di grandioso nella socialdemocrazia (il primato dato al movimento sui fini prestabiliti, teorizzato da Eduard Bernstein nell’800 e difeso da Fassino).
Ma sciogliersi e superarsi può divenire declamazione vuota, che seduce anche chi ti vuol eliminare. Cosa significa? Cosa intende Ségolène quando dice: «Mi iscrivo in una logica di dépassement, in un oltre-passare»? Il pericolo indicato al congresso da Fabio Mussi non si può sottovalutarlo: «La retorica dell’“oltre” oltre i partiti, oltre le tradizioni, oltre il socialismo non dice nulla, se non è chiaro dove si va». E ancora: «Cancellare le tracce può esser diseducativo. E quando il Moderno si presenta come “il nuovo” assoluto, in verità è già decrepito».
Tuttavia non si può che cercarlo, questo modo diverso di unire le forze per governare l’enorme mutare dei tempi: l’esigenza è possente ovunque in Europa, perché ovunque gli Stati non ce la fanno senza Unione e sono paralizzati da culture politiche tuttora nazionali. La rivoluzione liberale deve diventare di sinistra, come sostiene Michele Salvati, e non è solo il moderno a rischiare la decrepitudine ma anche l’antico: solo il classico non si deteriora e il classico ci è sempre contemporaneo. Anche la sinistra radicale può divenire quel sentiero interrotto di Heidegger, in cui l’uomo si perde nel buio del bosco. Son sentieri che Mussi teme, quando ricorda che «i partiti vivono anche nelle sconfitte, non sono fatti solo per la vittoria. Sono soggetti identitari, non solo programmatici».
Ma Fassino e Prodi ci paiono più convincenti quando parlano di democrazia governante: dunque di un’identità che deve confrontarsi col reale e saper padroneggiare il reale. Altrimenti avviene come in Francia: i suoi socialisti fanno di continuo pause e rinunce, ma senza mutare programmi e miti. L’identità ha qualcosa di diabolico, rischia sempre il fascino del falso quando non osa interrompere sentieri. In tal caso non è di aiuto né per vincere, né per vivere le sconfitte e ritrovare la via nel buio dei boschi.