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Salvatore Settis
Il Signore dei restauri
11 Dicembre 2005
Articoli del 2004
Questa volta si parla di un altro Urbani, che va ricordato con rispetto e studiato con ammirazione per le verità che aveva compreso. Da la Repubblica del 22 giugno 2004

Bruno Toscano e Bruno Zanardi, Licia Vlad Borrelli e Giorgio Torraca, Caterina Bon Valsassina (direttrice dell´Istituto Centrale per il Restauro) e Cristina Acidini (direttrice dell´Opificio delle Pietre Dure), Gianni Romano e Giorgio Bonsanti: questi alcuni dei partecipanti alla giornata di studio che la Scuola Normale Superiore di Pisa dedica oggi a Giovanni Urbani nel decennale della morte, con l´intervento del ministro Giuliano Urbani. Non si tratta tuttavia, come potrebbe credersi, della postuma celebrazione di una figura pur importantissima nella storia della tutela in Italia: ma piuttosto di una riflessione, attuale oggi più che mai, sulla sua grande, inascoltata lezione.

Con straordinaria lucidità, infatti, Giovanni Urbani vide assai precocemente che le norme di tutela stabilite nel 1939 dalle leggi Bottai, per quel tempo avanzatissime, non potevano essere ibernate in perpetuo, scambiandole per intoccabili tavole della Legge. Al contrario, bisognava (bisogna) riflettere sul rapporto fra due fattori di mutamento (se non di rivoluzione) che gli anni del secondo dopoguerra misero in moto con velocità crescente: da un lato, l´imprevisto evolversi della società sotto la spinta di una crescita economica tumultuosa, a cui non corrispose e non corrisponde una parallela crescita culturale; dall´altro, l´incessante affinarsi della cultura e delle tecniche della conservazione, un ambito in cui l´Italia ebbe, e in certa misura ha ancora, una riconosciuta leadership mondiale.

Il problema era dunque se assistere passivamente a questi due sviluppi, simultanei ma discordanti, lasciando sempre più divergere la più avanzata cultura della tutela dalla pratica applicabilità di norme concepite per una società ormai liquidata dalla guerra e dall´irrompere di nuovi modelli di comportamento; o se invece, come Giovanni Urbani volle con tenace intelligenza, riflettere per riformare norme e strutture. Riformarle, s´intende, non per ansia di superficiale "aggiornamento", bensì onde prevenire i più perversi sviluppi e assicurare il massimo livello di tutela. Se le leggi Bottai funzionavano in modo tanto imperfetto, infatti, non era solo perché la guerra impedì la redazione dei relativi regolamenti, che poi il parlamento repubblicano sempre trascurò di compilare, bensì per incontrollati rivolgimenti di struttura e di contesto. Quegli stessi che, con l´aggiunta del rapporto Stato-regioni inquinato dalla retorica sgangherata di un "federalismo" straccione e senz´anima, hanno generato negli ultimi anni prima il Testo Unico del 1999 e poi il Codice del 2004.

Giovanni Urbani osservò che nella tutela si riconoscono «gruppi troppo poco influenti per avere la possibilità di prevalere su scelte ad essa contrastanti», e mise in guardia dai rischi di un´indiscriminata economia di sovvenzione che non sappia distinguere «ciò che è effettivamente utile e giustificato da quello che è puramente ostentatorio o oblativo». La conseguenza inevitabile sarà (egli scrisse) «che sarà considerato utile e giustificato sempre e solo l´intervento minimo»: mentre il sistema dovrebbe evolvere, per essere efficace, verso «il passaggio dell´attività conservativa dall´attuale stato di attività marginale (...) a una fase di sviluppo che non può essere definita altrimenti che come industriale", col necessario corollario di corrispettivi investimenti nella conoscenza e nella ricerca. Qui egli aveva in mente il ruolo centrale dell´Istituto per il Restauro (di cui fu direttore), al quale era affidata nel suo disegno la pratica dimostrazione che la conservazione programmata dell´insieme, e non il restauro occasionale e terapeutico di isolati oggetti e monumenti, risponde a una logica di convenienza economica del Paese.

In questa concezione, frutto di una lucida analisi che ci appare oggi profetica solo perché allora nessuno volle ascoltare, l´intimo legame contestuale che fa del territorio e dell´ambiente (città, campagna, paesaggio) un continuum inscindibile da tutelare nel suo insieme è visto non come un peso fastidioso di cui sbarazzarsi svendendo coste, foreste e monumenti, ma come l´innescatore di potenti meccanismi di sviluppo, che potrebbero assicurare l´immagine e la memoria storica del Paese, e al contempo garantire ampia occupazione. Ne nasceva anche l´esigenza, ancor oggi irrisolta, di intendere le strutture di tutela come enti di ricerca, fondendo le pratiche conservative con la dimensione conoscitiva del patrimonio, con la pianificazione urbana e del territorio, con lo sviluppo civile. Negativa fu perciò, com´egli vide subito, la burocratica invenzione di un ministero dei "beni culturali", «binomio malefico funzionante come un buco nero, capace di inghiottire tutto, e tutto nullificare in vuote forme verbali», e l´assegnazione dell´ambiente a un altro Ministero: il suo progetto (condiviso con Andrea Emiliani, Baldini, Valcanover) era invece di ricostruire la funzionalità delle strutture di tutela a partire dal territorio, con "laboratori intersoprintendenze" che elaborassero strategie di ricerca e di conservazione programmata del patrimonio culturale e dell´ambiente (donde il suo Piano-pilota per l´Umbria).

Un messaggio, come si vede, di drammatica attualità: mentre le Soprintendenze, al contrario, si svuotano di personale a ogni giorno, e aumentano fino a farsi legione i direttori generali, e di nuove assunzioni nessuno parla. Vorrà il ministro Giuliano Urbani ascoltare la vox clamantis in deserto del suo illustre omonimo?

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