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Carla Ravaioli
Il rovinoso rapporto tra capitale e natura
8 Dicembre 2007
Sinistra
Il conflitto tra capitale e lavoro non è l’unico sul quale una nuova forza di sinistra debba intervenire. Da Liberazione, 7 dicembre 2007

Appelli che si moltiplicano, seminari sempre affollatissimi che si rincorrono e sovrappongono, dibattiti su singoli temi o su strategie totali, impegnati interventi su tutta la stampa di sinistra, e-mail che a valanga ci raggiungono ogni giorno. Sempre più ampia e sentita è l’attesa per gli Stati Generali dell’8-9 dicembre, data a partire dalla quale le sinistre italiane, finalmente unite, dovrebbero avere una sola parola.

Il fatto era in qualche misura prevedibile. Lo aveva annunciato il popolo del 20 ottobre, e il 24 novembre delle donne, e la Sinistra Europea al suo secondo congresso, appena celebrato a Praga con la presenza attiva (accanto ai diciannove partiti che istituzionalmente la compongono) di una serie di associazioni e gruppi portatori di istanze molteplici. Ma il fervore politico di questi giorni va oltre le attese. Nessuno può oggi negare l’esistenza di una sinistra; o meglio, di una urgente e consapevole domanda di sinistra, e quindi di un forte “potenziale” di sinistra, fatto di persone di provenienza e condizione le più diverse, per lo più estranee ai partiti, che si ritrovano nel rifiuto del mondo così com’è oggi, e chiedono una politica capace di promuoverne il superamento. Persone pronte a partecipare e a impegnarsi. Ma anche a defilarsi, ad arrendersi di fronte a una qualità della politica in cui non si riconoscono. Se i quattro partiti che hanno indetto gli Stati Generali non sapranno cogliere questo enorme potenziale di sinistra, capirne il valore e rispondere adeguatamente, il danno non potrà non essere anche loro.

La prima risposta con più insistenza e all’unanimità sollecitata, come indispensabile premessa di ogni politica utile, è quella di una sinistra unita: che sappia dunque superare difficoltà e problemi immediati, e soprattutto abbandonare personalismi e piccoli interessi di gruppo, per guardare lontano; o provarci almeno, finalmente. Questo è d’altronde ciò che esige il mondo oggi, reso irriconoscibile dagli straordinari mutamenti prodottisi in tutti i campi durante il secolo scorso, e tuttora in atto.

La globalizzazione non è una parola, è un fatto. Il quale - utilizzando ogni passo di uno straordinario progresso tecnologico, e moltiplicando scambi e comunicazioni di ogni sorta - poco o tanto scuote e trasforma l’intera realtà, crea gravi, talvolta gravissimi, nuovi problemi, ma anche modifica profondamente i problemi ereditati dal passato; e a tutti imprime dimensione sovranazionale. Le migrazioni ininterrotte e sempre più folte, il terrorismo in continua espansione, la guerra dichiaratamente promossa a normale attrezzo politico, la finanziarizzazione in costante aumento, la crisi economica che molti qualificati osservatori giudicano strutturale e forse irreversibile, la sempre più drammatica crisi ecologica, sono tutti problemi per loro natura sovranazionali, sono “problemi-mondo”, che solo a livello sovranazionale potranno, forse, trovare soluzione. Ma anche il lavoro in ogni sua forma e il suo sempre più pesante sfruttamento, e così le crescenti disuguaglianze tra ricchi e poveri, l’impoverimento dei ceti medi, l’insicurezza generalizzata, cioè quelli che da sempre sono al centro dell’agenda delle sinistre: tutti sono divenuti problemi-mondo, e difficilmente possono oggi essere affrontati utilmente all’interno di un singolo paese.

Tutto questo non trova però rappresentazione a livello politico. Esiste, e impera, una globalizzazione economica, ma non esiste una globalizzazione politica. Un impegno serio di riflessione in proposito, non si vede nemmeno tra le sinistre, che pure per la loro stessa funzione storica ne avrebbero il compito, dato che sul lavoro soprattutto vengono scaricati i costi di questa “grande trasformazione”, e che sono sempre i più deboli a pagare i costi delle catastrofi ambientali. E questo è un vuoto, che in qualche misura si avverte anche nella vasta e fervorosa sinistra che in questi giorni si confronta.

Certo, a seguire incontri e dibattiti, a cogliere propositi e suggerimenti, è difficile non consentire con quanto si dice: in difesa del lavoro e di una più decente distribuzione del reddito, contro la guerra e le basi militari americane disseminate in Italia e in Europa, per la rivendicazione dei diritti civili e contro la violenza sulle donne, a favore delle energie rinnovabili e contro il nucleare, e così via; tutte cose non solo condivisibili ma sovente proposte con intelligenza e coraggio, e tutte (tranne rare eccezioni) in sintonia con la linea storica delle sinistre. Ciò che si ascolta insomma è, in qualche modo, “il meglio del già detto”. Può bastare?

La Sinistra italiana, che attendiamo veder nascere unita dalle prossime assise, non credo possa esimersi dal riflettere sui grandi mutamenti che agitano il mondo, anche per rileggere alla loro luce i problemi da sempre oggetto prioritario del suo programma. A cominciare dal mercato del lavoro, in cui l’antica equazione “più produzione = più occupazione” è ormai fuori corso, perché delocalizzazioni, invasione di prodotti stranieri a prezzi stracciati, tecnologie capaci di sostituire porzioni crescenti di lavoro umano, masse di migranti, hanno di fatto vanificato le “leggi” pensate per regolarne le dinamiche, e però da nessuno - ch’io sappia - date per decadute.

Ma ciò su cui vorrei soffermarmi con qualche attenzione è la crisi degli equilibri naturali, il più clamoroso “mutamento” impostosi negli ultimi decenni e il più carico di conseguenze negative: problema, come noto, a lungo sostanzialmente ignorato dalle sinistre. Oggi le cose sono notevolmente cambiate, e Prc in particolare dedica non poco rilievo alla materia. Diversi sono in effetti i passaggi che nei diversi documenti preparatori degli Stati Generali si occupano della questione, di cui non è qui possibile dar conto. Ma ciò che mi interessa rilevare è che le politiche ambientali previste (promozione di energie rinnovabili, razionale trattamento dei rifiuti, opposizione a “grandi opere” di pesante impatto ambientale, ecc.) certamente utili, di fatto rappresentano solo dei correttivi, delle modifiche che non incidono sull’attuale modo di produzione e consumo, e (nonostante volonterose dichiarazioni di “necessario cambiamento del modello di sviluppo”, e perfino di “ripensamento dello sviluppo illimitato”, di assunzione del “concetto del limite”) non raggiungono il “cuore” delle cose. Secondo un approccio non solo lontano dall’assunzione della crisi ecologica in tutta la sua terrificante portata, ma ignaro di ciò che vorrebbe un programma davvero capace di arrestare, o almeno rallentare il tremendo assalto ininterrottamente portato dal nostro sistema economico all’equilibrio naturale.

Che significherebbe rimettere in causa le categorie politiche oggi dominanti, e inaugurare una strategia che vada oltre la (certo necessaria) redistribuzione della ricchezza, per investire non solo i modi ma le ragioni stesse della sua produzione, e creare una cultura capace di interpretare e gestire i radicali mutamenti del mondo contemporaneo. Una cultura che ponga domande esigenti, e apra dubbi sulla ineluttabilità di obiettivi quali efficienza, produttività, competitività, crescita, sulla indiscutibilità di “doveri sociali” quali possesso e consumo di oggetti, sulla quantità come valore in sé; che sollevi interrogativi su vite interamente consumate dal lavoro, nel segno di un capitalismo accettato non solo come ineluttabile presente, ma come “naturale” futuro di tutti.

Oggi, accanto all’antico e irrecuperabilmente disuguale rapporto tra capitale e lavoro, ci troviamo ad affrontare il rapporto tra capitale e natura, anch’esso antico, ma solo di recente rivelatosi in tutta la sua rovinosa rapacità. Sono due problemi che (diversamente da quanto le sinistre hanno tradizionalmente ritenuto) non solo non si contraddicono, ma si completano a vicenda, anzi in qualche misura contengono anche tutti gli altri e possono forse indicarne la soluzione. Solo una sinistra unita può trovare la forza di proporseli come obiettivo. Ma a volte accade anche che un’idea chiara, un obiettivo condiviso, si facciano presupposti di un lavoro comune.

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