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Paolo Ginsborg
Il ristagno europeo e le possibilità italiane
17 Agosto 2005
Articoli del 2004
Un intervento nel dibattito sulla sinistra (il manifesto, 2 novembre 2004). Un dibattito apero da tempo, che speriamo conduca presto a sbocchi positivi, soprattutto ora dopo la vittoria di Bush. Se non ora, quando?

E'almeno da vent'anni che si nota un'esaurimento della sinistra europea in termini di idee e di strategie, e la sua conseguente incapacità di mobilitare larghi strati di una società in rapido mutamento, o di suscitare vero entusiasmo per i suoi progetti. Da un lato, il riformismo moderato europeo è rimasto in gran parte succube dell'ondata neoliberista e ha governato nella sua ombra. Solo ora, e non in tutti i paesi, comincia a rivedere timidamente le sue posizioni su certi punti chiavi - come, per esempio, di riconoscere l'incombente necessità di preservare e di reinventare i servizi e lo spazio pubblici - quei doni della storia europea perennemente a rischio.

Dall'altro lato, la sinistra radicale si è in gran parte persa nel suo solito settarismo, divisa fra ex-comunisti, troskisti e altri elementi, ognuno con la sua nostalgia storica particolare e con la sua forma-partitino. Ed è un gran peccato, perché proprio ora, in un momento così drammatico, abbiamo bisogno di inventività e generosità da parte di tutti i partiti della sinistra europea, non della loro fossilizzazione.

In questo quadro deprimente, l'Italia occupa una posizione del tutto particolare. Sembra, a prima vista, uno dei casi europei più disperato. E' una società demograficamente sempre più vecchia, un paese stanco e cinico che soffre, come ha detto Doris Lessing in uno dei suoi romanzi, da troppo sole e troppa storia. Ed è un paese che ha consegnato il potere politico a un governo di destra molto pericoloso, proprio per conto della sua profonda consocenza del potere della pubblicità e dei mass-media.

Nondimeno, l'Italia stranamente non è un paese rassegnato, ma un paese dove le passioni civili sono spesso presenti e dove la politica ancora conta molto al livello quotidiano, molto di più che nel freddo e sonnolente Nord e, almeno per il momento, nell'Est disastrato e astensionista. L'Italia è un luogo di possibilità politiche reali, come la Spagna, ed è largamente riconosciuta come tale da coloro che si intendono della politica europea.

Se qualcuno nutre dei dubbi su ciò, dovrebbe riflettere un attimo sull'anno 2002. Era un anno che ha visto delle mobilitazioni - quella enorme della Cgil in marzo ma anche quella auto-organizzata dai movimenti a Piazza San Giovanni in settembre - del tutto inusuali dal punto di vista sia numerica che di composizione sociale. Sindacalisti, ragazzi dei Social Forum, ma anche molti elementi dei sempre più numerosi ceti medi urbani, esprimevano non solo la loro opposizione al governo Berlusconi ma anche il desiderio di nuove forme di politica e di rappresentatività.

Le loro aspirazioni - non solo di difendere la democrazia ma anche di rinnovarla profondamente - sono state in grandissima parte deluse. Le ragioni sono molte. Una, certamente, era l'incapacità delle forze moderate del centro-sinistra di recepire o perfino di capire la necessità di un nuovo rapporto fra politica e società civile. Ma un'altra, ugualmente grave, risiedeva nell'immobilismo dei piccoli partiti collocati alla sinistra del centro-sinistra, la loro incapacità di intercettare se non in piccola parte la grande ondata, la loro riluttanza ad aprirsi a orizzonti nuovi, a un cammino unitario.

La gente che si mobilitava nel 2002 non è scomparsa. Sta a casa o a lavoro, va al cinema o in pizzeria, parla con scetticismo o amarezza della politica. Ma non rimane, questa è la mia fortissima impressione, del tutto rassegnata. Capisce benissimo che non si può continuare così - né con la guerra in Iraq, né con la politica economica neo-liberista (che sia in salsa azzurra o rosa), né con gli attuali rapporti fra Nord e Sud del mondo, né nel modo spensierato e del tutto irresponsabile del nostro consumo quotidiano, né con una società sempre più dominata dall'antico ma ringiovanito rapporto fra patrono e cliente. Vorrebbe ripartire, legare la sua quotidianità a un progetto politico nuovo, cercare soprattutto di incidere. Ma non sa da che parte rivolgersi.

L'idea di Romano Prodi di una grande alleanza democratica è un'idea felice. Ma l'alleanza non deve rimanere la proprietà solo dei politici di professione e di carriera. Riempiamola dunque di contenuto, di dibattito, di movimento, che ne favorisce una dimensione innovativa e non solo gestionale. Mi sembra che i punti programmatici della Cgil, mandati recentemente a Prodi, sono un buon punto di partenza.

Condivido dunque in senso pieno sia l'urgenza che la frustrazione di Alberto Asor Rosa. Se una sinistra critica non parte oggi in Italia mancheremo a un appuntamento storico. E se i vertici non riescono a partire, partiamo noi dal basso, al livello cittadino. Troppo sole, troppa storia, cara Doris, ma anche tante città. Dopotutto l'Italia è il paese delle cento città, che hanno prodotto nella lunga durata della loro storia tanta cultura, anche quella politica.

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