loader
menu
© 2024 Eddyburg
Virginia Della Sala
Il referendum, uno sconfitto di successo: le compagnie vincono, ma pure le Regioni
20 Aprile 2016
Invertire la rotta
Una prima analisi sulle sconfitte e sulle vittorie del referendum.

Una prima analisi sulle sconfitte e sulle vittorie del referendum. Il Fatto Quotidiano, 18 aprile 2016 (p.d)

Il referendum è fallito, viva il referendum. Il risultato finale, nonostante il mancato raggiungimento del quorum, è in chiaroscuro: i comitati per il “Sì” ieri hanno senz’altro mancato l’obiettivo di portare a votare la metà più uno degli italiani, eppure la stessa presenza in campo dei quesiti (all’inizio erano sei) ha cambiato le carte in tavola.

Partiamo da cosa non è andato. Il referendum chiedeva agli elettori di abolire la norma che permette di prorogare le concessioni per estrarre gas e petrolio in mare entro le 12 miglia (in questo limite è già vietato concedere nuovi permessi) fino all’esaurimento del giacimento.

Il referendum ha perso: regalo ai produttori

Milioni di italiani si sono schierati per non prolungare a tempo indeterminato lo sfruttamento dei giacimenti esistenti o prorogati all’ultimo secondo come Vega A, impianto Edison in Sicilia che è a processo per smaltimento illecito dei rifiuti (li avrebbero iniettati in un pozzo sterile risparmiando 70 milioni). Il quorum, però, non è stato raggiunto e dunque tutto rimane com’è: le proroghe delle 44 concessioni (con 90 piattaforme e 484 pozzi) potranno solcare i decenni con relativo ampliamento degli impianti fino alla fine della “vita utile del giacimento”. Il ritmo di estrazione, peraltro, continuerà a deciderlo l’azienda: metà delle piattaforme, infatti, sono già ferme e la stragrande maggioranza di quelle attive già oggi produce “sottosoglia”(non raggiunge cioè il limite sopra il quale comincia a pagare le royalties allo Stato).

L’effetto sui posti di lavoro temuto dai sindacati e agitato dal governo non ci sarà: va ricordato che i numeri, nel caso di specie, sono assai ballerini. Assomineraria, per dire, ha stimato gli addetti (indotto incluso) prima in 5mila, poi 13mila; i chimici Cgil dicono 10mila; legambiente 3mila. Per la Fiom Cgil, invece, sulle piattaforme oggi lavorano in 100. Qualunque sia la cifra, non cambierà niente. Le compagnie petrolifere poi, col prolungamento delle concessioni, ci guadagnano il rinvio sine die dello smantellamento di quasi la metà delle piattaforme esistenti classificate “non eroganti” o “non operative”: bonificare quei 35 impianti gli costerebbe almeno 800 milioni, ma bonifica e smantellamento sono fasi a grande intensità di manodopera (tradotto: creano più posti di lavoro per anni).

Rimane in piedi, ovviamente, il rischio ambientale: per Greenpeace - che si basa su dati Ispra raccolti in 34 piattaforme Eni - le cozze cresciute sugli impianti hanno livelli oltre i limiti per almeno una sostanza chimica pericolosa nel 75% dei casi.

Il referendum ha vinto: l’esecutivo ci ripensa

La consultazione di ieri, in realtà, ha vinto anche se è fallita: i 10 consigli regionali che hanno chiesto i referendum avevano infatti presentato sei quesiti sul tema energetico, tutti “ispirati” dalle forzatura del decreto cosiddetto “sblocca Italia” del 2014, il cui fine ultimo era esautorare le Regioni da qualunque processo decisionale. Il governo Renzi ha avuto paura e pian piano ha abolito tutte le norme contestate: solo un trucco per tenere in vita senza limiti di tempo le concessioni entro le 12 miglia ha di fatto imposto alla Cassazione di dare il benestare al voto tenutosi ieri.

Le Regioni, in ogni caso, hanno costretto il governo a fare marcia indietro su temi fondamentali: ad esempio è stata abolita la previsione che le trivelle hanno caratteristica di “strategicità, indifferibilità e urgenza”, il che esautora i governi locali da qualunque decisione e militarizza gli impianti sul modello del Tav Torino-Lione. Anche il “titolo concessorio unico” è stato abbandonato: previsto dallo “sblocca Italia” regalava in sostanza alle compagnie petrolifere il tratto di mare da perforare senza alcun limite di tempo (ora dura 30 anni, ma è vigente pure il vecchio iter prorogabile a piacere dal ministero fino a 50 anni).

Il tema del “Piano delle aree” invece è una vittoria agrodolce. Serviva a decidere una volta per tutte dove si può trivellare e dove no: il governo voleva decidere da solo, Regioni e territori chiedevano di partecipare. Soluzione: il “Piano delle aree” è stato abolito. Curioso che la norma sulle proroghe salvata dal fallimento del referendum potrebbe essere abolita dall’Ue: viola i principi della concorrenza.

ARTICOLI CORRELATI
21 Marzo 2019

© 2024 Eddyburg