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Marco Guido; Sodano Ruotolo
Il raddoppio continuo
4 Ottobre 2010
Articoli del 2010
Malgoverno, malavita e padrini del cemento alleati tra Salerno e Reggio Calabria. Un servizio di la Stampa, 4 ottobre 2010

A3, scandalo infinito. Il cantiere dimezzato è pagato a peso d’oro



Quando si dice il paradosso. Nel giorno - giovedì scorso - in cui il presidente del consiglio Silvio Berlusconi annuncia alla Camera che «il raddoppio dell’A3 sarà completato entro il 2013» e il governo si attrezza a introdurre il pedaggio, in redazione a La Stampa arriva una busta gialla. Contiene un documento anonimo che ripercorre l’ennesima vicenda della Salerno-Reggio Calabria, l’autostrada in offerta speciale dove si paga tre per comprare due. La lettera fa riferimento a documenti e notizie pubblici di cui non è difficile trovare riscontro.

Così si scopre, tanto per cominciare, che la Salerno-Reggio non sarà completata mai. L’autostrada si fermerà a Campo Calabro, località che si affaccia sullo Stretto un po’ prima prima del capoluogo. Da qui dovrebbe spiccare il salto il ponte che (forse) unirà Calabria e Sicilia. Una decina di chilometri più corta, per gli amici sarà la Salerno-Campo. L’ultimo tratto dell’appalto del titanico raddoppio - qualcuno preferisce ammodernamento - dell’A3 Salerno-Reggio Calabria è stato tagliato in due. Dei venti chilometri tra Scilla e Reggio se ne raddoppieranno poco più di metà. Il resto è stato «stralciato», e con il danno c’è la beffa. Stralcio per stralcio, diresti, si risparmieranno un sacco di soldi. Non qui: l’appalto programmava una spesa di 634 milioni per 20 chilometri.

Ma all’annuncio con cui l’allora sindaco di Reggio Giuseppe Scopelliti (oggi guida la Regione) ha illustrato lo stralcio chiamando in causa il presidente dell’Anas Vincenzo Ciucci («abbiamo deciso insieme un restyling»), è seguito l’abituale e prevedibilissimo contenzioso tra l’Anas e il general contractor, il gruppo che gestisce l’appalto. È seguito un accordo: i 634 milioni della commessa sono stati ridotti a 415, ma l’appaltatore ha ottenuuto un indennizzo di 91 milioni. Totale 506 milioni, che non è metà di 634 ma il 79%, per fare mezzo lavoro. Come dire che dieci diviso due fa quasi otto.

Un tempo i costi - e i profitti - dei lavori pubblici crescevano con l’avanzamento lavori. Si tirava tardi per ottenere una ridiscussione e scoprire che i prezzi erano saliti. Poi si aggiornava la faccenda a suon di aumenti. Ora la legge ha introdotto controlli più stretti. Nello stralcio non c’è nulla di illegittimo, almeno in superficie: l’Anas ha accettato l’accordo e probabilmente si fa peccato a riflettere sul fatto che il secondo tratto del macrolotto 6 è molto più complicato - e costoso - da realizzare del primo. Chiunque voglia godersi il viaggio (mezz’ora tra andare e tornare in auto) vedrà che il percorso in questione attraversa l’area urbana di Reggio Calabria. È un ghirigoro di curve, gallerie, sopraelevate e svincoli che attraversa le case, galleggia sui campi da calcetto e le vie del passeggio, si infila nel porto all'altezza della dogana e sbatte nel molo da cui partono i traghetti per Messina. Allargare una strada come questa non è uno scherzo: nessun paragone con la prima parte del lavoro. Ma dieci diviso due fa sempre otto. Scopelliti ha giustificato lo stralcio spiegando che temeva di bloccare per anni il traffico nella parte nord della città.

Preferisce, ha detto, una tangenziale che sfili alle spalle dell’abitato e poi si ricongiunga con la statale 106 (che risale lo Ionio e corre fino a Taranto lungo la costa sud). Un lavoro da 1,8 miliardi di cui non s’è parlato che una volta, però c’è sempre un altro appalto in vista. Il primo cantiere aprì nel 1996, il rinnovo del gigante - gli inquirenti lo liquidano in una battuta amara come il «corpo del reato più lungo d’Italia» - è arrivato a costare 22 milioni al chilometro. Arresti e indagini non si contano. Non c’è da stupirsi se qualche amministratore calabrese ha suggerito di commissariare i lavori per dribblare una burocrazia pericolosa. Ancora meno c’è da stupirsi che non lo abbia ascoltato nessuno. Infine, mentre Berlusconi ricamava sul completamento alla Camera, in Commissione bilancio la maggioranza aveva appena stralciato (quando si dice il destino) finanziamenti per 145 milioni all’A3.

Mettiamoci in coda con pazienza, dieci diviso due fa ancora otto.

«Volevo seguire la legge

Mi hanno messo fuori»



L’auto arriva all’ingresso dell’hotel Excelsior, nel centro di Reggio, dirimpetto al Museo che ospiterà i Bronzi di Riace. L’autista fa cenno: salite. Non c’è tempo per i convenevoli, riparte subito per perdersi nel traffico cittadino. Ha fretta, ha fretta di raccontare la sua rabbia, la sua disperazione, la voglia di scappare. «La mia - esordisce - è la storia di un imprenditore che per rispettare le regole e lo Stato si trova fuori dal mercato. Mi sento straniero in terra straniera. Ho 30 anni, il nonno di mio padre fondò l’azienda. Abbiamo lavorato sempre nell’edilizia, adesso voglio gettare la spugna. Non sopporto più l’idea di vivere in una città indolente, che subisce torti e sopraffazioni e non reagisce. Sono stufo delle fiaccolate che non risolvono un bel niente. Sono stufo di quello scandalo infinito che è il raddoppio della Salerno Reggio Calabria, la nostra croce».

È uno sfogo disperato, che arriva il giorno dopo una bella retata di ’ndranghetisti, una settimana dopo una bella manifestazione cittadina contro le bombe contro la procura generale di Salvatore Di Landro. Dire che nulla è cambiato, che Reggio è sempre la stessa è fare torto alla speranza di tanti giovani e all’impegno delle forze di polizia e della magistratura. E di questo, anche l’imprenditore senza speranze dà atto: «Ma quello che mi fa essere pessimista è la solitudine della gente perbene. Non c’è una massa critica, una capacità di indignarsi, di fare squadra, di reagire collettivamente allo strapotere di cosche e potentati. Nessuno si ribella. Ci vorrebbe la rivoluzione delle coscienze». Il nostro imprenditore si materializza la settimana scorsa, con una telefonata al centralino del giornale. Vuole raccontare la sua sofferenza: «Sono diventato lo sponsor di chi vuole emigrare. Ieri partivano le valigie di cartone per andare in Svizzera, nelle miniere come quella di Marcinelle in Belgio. Oggi, laureati e ’ndranghetisti. I primi a cercare un lavoro, i secondi a moltiplicare i loro affari criminali. E qui hanno trovato un pozzo senza fondo le grandi imprese del Nord, che vengono a patti con la mafia e divorano i fondi pubblici». Sopravvive, il nostro imprenditore.

Cinque dipendenti, un parcheggio di mezzi distrutti e incendiati. Briciole di quella torta immensa che è l’autostrada Salerno-Reggio Calabria. Parla mentre l’auto sfreccia per Archi, cammina a passo di lumaca per il lungomare, e poi Sbarre - ricordate il quartiere della rivolta di Ciccio Franco, negli Anni 70 di Reggio capoluogo? -, Ravagnese. Si allunga fino a Melito Porto Salvo, le cattedrali nel deserto, Saline Joniche (un miraggio del pacchetto Colombo post rivolta ’70). Un percorso che è un insieme di vie Crucis, di territori sfigurati dall’abusivismo edilizio, di pareti o asfalti testimoni di vendette mafiose, di corpi straziati da autobombe o da lupare.

Reggio è il passato e il presente. L’imprenditore accosta. Sfoglia un giornale. L’elenco degli arrestati: «C’è un cognome, Pitasi, che è lo stesso che trovate in un cantiere della Salerno-Reggio, una ditta associata con una impresa di Milano. Nonostante i Protocolli d’intesa, i Patti per la sicurezza, le ditte della ’ndrangheta continuano a lavorare». Se non fosse che per tutto il tempo l’imprenditore si dispera e impreca contro la ’ndrangheta e il malaffare, quella frase che butta così nel piatto della confessione, suona come nota stonata: «La verità è che se non ci fosse stata la magistratura, a quest’ora la Salerno-Reggio Calabria sarebbe stata ultimata».

Considerazione che lascia perplessi. «Non fraintendetemi. Voglio dire che vivaddio che ci sono le inchieste giudiziarie che stanano le imprese mafiose, anche pagando il prezzo del ritardo dei lavori. L’angoscia è che siamo in trincea. Qui si combatte una guerra tutti i giorni. Ogni giorno qui muore la speranza. Una sofferenza indescrivibile».

Il pizzo ambientale

Alle cosche il 3% degli appalti



All’inizio, sull’affare dell’autostrada, alle cosche era proprio andata male. In Calabria, a gestire subappalti, assunzioni e cantieri era arrivato dalle brume fredde di chissà dove a rappresentare la Asfalti Sintex Spa, che aveva vinto l'appalto dei lotti cosentini, «tale ing. Facchin, il quale - ricostruiscono i magistrati - non intendeva sottostare ad alcuna forma di estorsione». Un bel guaio per le 'ndrine. Ci furono i primi attentati, ma Facchin sempre lì: fermo come una roccia a dire di no. Nessuno saprà mai se alla fine avrebbe vinto lui o la ‘ndrangheta, che nelle fantasie nordico-romane è potentissima e, con geometrica precisione, vince sempre e comunque.

Non lo sapremo mai perché l’Asfalti Sintex affrontò la cosa con piglio determinato e risolutivo. Il gruppo, «prendendo atto della incapacità dell'ing. Facchin a gestire il rapporto tra imprenditori e cosche - recitano con involontaria ironia le carte - ed avendo la prioritaria esigenza di garantire la “tranquillità sui cantieri”, decise di sollevare dall'incarico l’ing. Facchin, sostituendolo con tale Angelo Spiga, romano».

Fu subito un’altra musica. Gli attentati? Un fastidioso ricordo. Le cosche passarono dalle bombe e gli incendi al lavoro «scegliendo quale proprio imprenditore di riferimento, che avrebbe cioè dovuto prendere in subappalto i lavori della detta società (l’Asfalti, ndr), tale Dino Posteraro, il quale … s’impegnò a garantire la riscossione, dalla Asfalti Sintex e in favore delle cosche, di una somma pari al 3% dell’importo del capitolato». Un trionfo delle virtù di Spiga sull'incapacità di Facchin.

Strada ormai tracciata. Spiga e Posteraro vantando «contatti politici in Roma, che avrebbero loro consentito di pilotare le assegnazioni dei lavori nei successivi lotti autostradali calabresi» organizzarono «una decina di riunioni notturne in contrada Bosco di Rosarno» per la continuazione degli affari. Bosco è nel cuore dei territori della mafia potentissima della Piana di Gioia Tauro dove inizia il Reggino. L’affare cresce. La costa splendida e tormentata obbliga a una fuga di opere d’arte: ponti, gallerie, costruzioni ardite.

L’Asfalti esce di scena. C’è il Consorzio Scilla, di Impregilo e Condotte, i due più potenti gruppi del paese; per intenderci, quelli che hanno vinto l’appalto miliardario del Ponte sullo Stretto. Alle riunioni di Bosco, con Spiga e Posteraro, c’è il boss cosentino Di Dieco (che poi si pentirà illuminando quei summit) che si porta dietro uno dei suoi killer di fiducia, perché non si sa mai; c’è soprattutto il gotha dei rappresentanti delle famiglie che dominano i territori del tratto reggino dell'autostrada: Pesce, Bollocco, le famiglie di Bagnara; «il signorino» dei Longo, poi ammazzato; gli Alvaro di Sinopoli, i Gallico di Palmi e via elencando.

Impregilo e Condotte non vogliono perder tempo. Non sono come l’Asfalti. Non ci provano neanche a mandar giù un ingegnere cocciuto e roccioso, uno col vizio assurdo dell’onestà come l’ingegnere Facchin. Secondo i magistrati le intercettazioni dei dirigenti del consorzio «dimostrano in maniera incontestabile la disponibilità del Contraente Generale operante sul V macrolotto (Condotte Spa e Impregilo Spa) a sottostare alla tassa ambientale, pari al 3% da corrispondere alle organizzazioni criminali». Tassa ambiente e non più estorsione, che suona male.

Spiega il pentito: se «un esponente criminale si rivolge alla ditta» gli dice «mi devi pagare l'estorsione ma se saliamo a Roma a parlare con un funzionario dell'Anas diciamo: l'impatto tassa ambientale». Scrupolosi, l’Asfalti, Impregilo, Condotte che pur di costruire l’autostrada ci rimettono il 3% girandolo alle cosche? In realtà, non è esattamente così. Il capo area del Consorzio Scilla Giovanni D'Alessandro «aveva spiegato, sempre all'ingegnere Sales della sede di Roma (di Condotte Spa, ndr), che per recuperare il 3% da stornare alle organizzazioni criminali, aveva studiato l'inserimento fittizio di un costo aggiuntivo. Per usare le parole dell’ingegnere D’Alessandro - spiegano i magistrati - questa nuova voce era stata denominata: «costo fittizio di stima di un 3% sui ricavi chiamato costo sicurezza Condotte-Impregilo». Un giro di fatture maggiorate per «ricavare un surplus finanziario, il cash flow appunto, per poi destinarlo alla tassa ambientale da versare alle cosche». Insomma, costi scaricati sull’Anas, cioè su tutti noi che, senza saperlo, abbiamo pagato la tassa sicurezza Condotte-Impregilo, quella messa dalla ‘ndrangheta e finita in una riga del bilancio del Consorzio Condotte-Impregilo.

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