Certo riformismo post-comunista è un po' come quel vecchio gatto che porta nel suo imprinting originario lo stigma del cacciatore, per cui quando vede un topo si mette «in presa», ma non sa più perché lo fa e dunque finisce per mangiare dallo stesso piatto con la sua potenziale preda, ormai tranquilla che nessun pericolo le potrà venire da tanto azzardo. Non paia questa metafora troppo irriverente, perché è provato che quando passi al sodo e discuti di salario, di precarizzazione del lavoro, di pensioni o di democrazia sindacale, scopri che il perimetro concettuale nel quale la sinistra moderata si muove è -sostanzialmente - quello imposto dalla vulgata liberista che ha fatto della compressione del lavoro la chiave della competitività d'impresa. Può allora capitare che se Epifani abbandona il confronto con Confindustria perché alle aperture del suo nuovo presidente corrisponde una proposta in cui «il morto afferra il vivo», Fassino - del tutto disinteressato al merito di quel contenzioso - si precipiti in Cgil per scongiurare che non si rompa l'idillio con il neonato fronte antiberlusconiano aperto, come si sa, alle più strabilianti cooptazioni. Non spiace, ovviamente, che Berlusconi perda consensi anche nel suo campo, il problema è semmai su quali basi programmatiche le forze che gli si oppongono intendano guadagnare i propri. Ora, che nella sinistra moderata stia ormai consolidandosi una strutturale sussunzione culturale ed ideale al «centro» è cosa talmente chiara da rendere superfluo ogni indugio sull'argomento. Dichiarata dissolta la classe (anzi, le classi), sterilizzato il partito dei suoi compiti di rappresentanza sociale, derubricato il conflitto a patologia ed espunto il tema dei rapporti di produzione, rimane un blando e ammorbato riformismo, anch'esso peraltro riclassificato come sfida per la modernizzazione nella quale competono e si alternano al potere elites più o meno competenti: il tutto rigorosamente circoscritto entro le compatibilità date.
Al riformismo della sinistra moderata, che si presenta - per dirla con linguaggio gramsciano - come rivoluzione passiva, occorre contrapporre una coalizione delle forze di sinistra sufficientemente coesa e rappresentativa, capace di costruire con l'opposizione moderata un serio compromesso programmatico che tracci, in positivo, una linea di discontinuità con il presente, ma anche con la precedente esperienza di centrosinistra. Questo comporta innanzitutto una volontà politica preliminare, la disponibilità del variegato mondo della sinistra radicale ad abbandonare la rincorsa di piccole, velleitarie, mediocri rendite di posizione; poi a ricostruire in termini non propagandistici il profilo di una rappresentanza sociale che individui nel lavoro e nella ricomposizione di esso il suo baricentro; quindi a ripensare i fondamenti (come suggerisce Asor Rosa), mettendo le acquisizioni più feconde del marxismo in tensione con la realtà attuale e con le soggettività che la innervano, dal pacifismo all'ambientalismo, dalla lotta contro le multinazionali e il diritto di proprietà intellettuale a quella contro le transazioni finanziarie speculative e l'esproprio dei beni comuni, fino alla critica dello sviluppismo e della crescita senza limiti.
L' irruzione sulla scena di nuovi, socialmente eterogenei soggetti non comporta affatto la rimozione di un'analisi che scavi più in profondità o il ripiegamento della teoria su un sincretismo culturale di breve respiro ma, al contrario, richiede uno sforzo di totalizzazione dialettica che non si identifica con la giustapposizione acritica delle diverse esperienze e neppure con la pretesa saccente di mettere le brache al mondo. Questa fatica deve essere ancora compiuta. Abdicarvi comporta le seguenti, gravi conseguenze: a) che le forze di tradizione marxista si limitino a cercare nella realtà la conferma dei propri schemi teorici, mentre l'azione diretta, concreta, rimane prerogativa di quanti si muovono deliberatamente in una sfera adattiva, oppure è svolta da una parte del sindacato (quando è ispirato) che dilata alla sfera politica la propria rappresentanza sociale, oppure ancora è assorbita dall'iniziativa feconda, ma inevitabilmente parziale e sussultoria dei movimenti; b) che il tema del potere politico, il tema dello stato, della trasformazione istituzionale e quello dell'egemonia, intesa come organizzazione della democrazia partecipata, come costruzione sul campo di diversi modelli di vita comunitaria solidale trovino più punti di tensione e di incomprensione che di sutura; c) che questa perdurante dicotomia renda più complicata l'individuazione di un denominatore comune e, soprattutto, la costruzione di un programma con cui rendere esplicito ciò che si vuole creare, senza la qual cosa diventa scarsamente credibile anche ciò che si intende distruggere. Di tutto questo ci si dovrebbe sommamente preoccupare. Non basta dire che è necessario abolire la legge 30, la legge Bossi-Fini, l'ennesima manomissione delle pensioni, la legge Moratti, la «riforma» istituzionale devoluzionistica, la riduzione delle tasse ai ricchi, la pratica aberrante dei condoni, la detassazione delle grandi eredità... e si potrebbe continuare. Non basta cioè pensare a un puro ritorno allo status quo ante rispetto al governo di centrodestra. E' indispensabile delineare un progetto riformatore che abbia al suo centro, nelle parti e nell'insieme, un nuovo corso della politica e dei rapporti sociali: impostare una grande riforma del welfare (dalle pensioni agli ammortizzatori sociali alla sanità) da finanziarsi con una tassazione fortemente progressiva che coinvolga anche la ricchezza finanziaria e patrimoniale e fare del sistema di protezione sociale e della spesa pubblica per la casa, la scuola , l'assistenza il volano di uno sviluppo fondato sui consumi sociali; rilanciare l'intervento pubblico come investimento e orientamento strategico, come intervento diretto nei settori nevralgici dell'economia e ridare dignità al concetto di programmazione; fare del salario, del contrasto alla precarizzazione l'enzima e la via virtuosa di un rinnovamento della stessa cultura d'impresa; favorire la diffusione della democrazia a tutti i livelli della società, promuovendo l'estensione dei diritti e delle tutele del lavoro alle piccole aziende e varando una legislazione di sostegno all'accertamento della rappresentatività sindacale e alla legittimazione dei contratti collettivi attraverso il voto di tutti i lavoratori interessati; fondare una politica di accoglienza dei migranti che affermi senza titubanza una cittadinanza di prossimità, non legata al diritto del sangue o del luogo di nascita.
Ecco un terreno sul quale tentare di ricostruire una soggettività politica del lavoro capace di superare la dimensione corporativa e di parlare a tutta la società. Dico ricostruire perché - come si sa e come duramente ci conferma l'esperienza- l'identità sociale non è un presupposto, un dato di partenza, ma un punto d'arrivo che deve essere costruito con pazienza, intelligenza e determinazione, altrimenti si rischia di imbattersi, sempre di più, in una singolare figura di operaio, costretto dalle circostanze a sussulti improvvisi di autodifesa, ma strutturalmente prigioniero dell'ideologia dominante ed in essa destinato a rifluire. Se di questo si potesse ragionare insieme per aprire una prospettiva finalmente convincente, varrebbe davvero la pena di essere della partita.