«Ma è davvero giusto che il dibattito su temi di civiltà e libertà così essenziali si apra solo grazie alla disperata volontà di tormentati protagonisti, che affrontano la violenza ideologica dei pareri contrari?».
La Repubblica, 18 settembre 2016 (m.p.r.)
L’idea di effettuare l’eutanasia su un minore provoca un rifiuto immediato, anzi un senso di ribellione e poi di condanna per chiunque abbia osato anticipare la morte di un bambino. Anche se a chiederlo sono genitori desiderosi di porre fine all’agonia di un figlio, inutilmente prolungata da terapie dolorose e invasive. È una reazione più che comprensibile in un Paese in cui non c’è un quadro legale per le questioni di fine vita e l’eutanasia, anche se richiesta o addirittura implorata da un malato terminale cosciente e adulto, è un crimine.
Tuttavia nei Paesi che hanno sviluppato una cultura civile e giuridica sui temi del rifiuto dell’eccesso di cure (il cosiddetto accanimento terapeutico) e del rispetto della volontà di dire basta a una vita resa insopportabile da una malattia incurabile, l’atto di porre fine anticipatamente alla vita di un bambino straziata dal dolore, è invece oggetto di dibattito approfondito e di riflessione politica. Il Belgio, dove è stato riportato il caso di eutanasia su minore, è, insieme all’Olanda, uno dei Paesi più avanzati in questo senso, essendo riuscito a controllare le eutanasie clandestine con una legge che disciplina le problematiche di fine vita in modo scientifico, rigoroso e completo.
I casi dei minori sono molto complessi non solo per l’evidente carico emotivo, ma soprattutto perché viene a mancare il principio su cui l’eutanasia si basa, che è la volontà del paziente, a sua volta fondata sul diritto di autodeterminazione individuale. Ovvio che un bambino non può esprimere una volontà cosciente, e dunque la decisione spetta ai genitori, che in genere sono riluttanti a prendere qualsiasi posizione, combattuti come sono tra lo strazio di vedere un bambino soffrire e lo strazio di perderlo per sempre. Anche in queste situazioni drammatiche una buona legge è di grande aiuto, perché sia i genitori che i medici sanno che la società e le istituzioni tutelano le loro decisioni e, ove possibile, le sostengono, creando commissioni di esperti ad hoc e fornendo ogni tipo di assistenza e di consulenza. In Italia i genitori che si trovano in una situazione analoga sono completamente soli nella loro disperazione.
Molti ricorderanno il caso di Davide, il bimbo con la sindrome di Potter, nato cioè senza reni e uretere. I genitori volevano che il neonato vivesse il più a lungo possibile, ma senza arrivare a torturarlo. Quando i medici hanno chiesto l’autorizzazione alla dialisi, pur confermando che per la vita di Davide non c’era nulla da fare, la mamma Maria Rita ha chiesto un giorno per riflettere. Allora i sanitari si sono immediatamente rivolti alla magistratura, che d’ufficio ha tolto ai genitori la patria potestà, aggiungendo l’umiliazione al dolore immenso per Davide. Risultato: Davide ha vissuto 80 giorni alimentato con un sondino alternato al biberon, con dialisi di sette ore quasi ogni giorno e respirazione assistita per le crisi che lo assalivano regolarmente. In più ha subìto interventi invasivi come l’applicazione di un catetere all’ombelico, uno alla giugulare, che il piccolo si è strappato con le sue stesse manine, e anche uno all’inguine.
Dopo questo inutile calvario Davide è morto, mentre intorno al suo corpicino martoriato infuriavano le polemiche sui genitori annichiliti, umiliati e accusati di volerlo assassinare in nome del mito del “bimbo perfetto”. Oggi Maria Rita fa campagne di sensibilizzazione, insieme a Mina Welby, Beppe Englaro e gli altri parenti di vittime dei pregiudizi sociali, oltre che di terribili malattie, che scendono in piazza per evitare che la loro tragedia accada ad altri. Ma è davvero giusto che il dibattito su temi di civiltà e libertà così essenziali si apra solo grazie alla disperata volontà di tormentati protagonisti, che affrontano la violenza ideologica dei pareri contrari? Io credo di no. Ripeto: la libertà di cura (e dunque anche di rifiutare la cura) è un diritto sancito dalla nostra Costituzione. E se c’è un diritto una legge dovrebbe tutelarlo.