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Giancarlo Consonni
Il prezzo del business immobiliare
6 Aprile 2011
Milano
La città legata mani e piedi alla speculazione non è un destino immutabile, ce lo insegna la storia oltre che il buon senso. La Repubblica ed. Milano, 6 aprile 2011

«Nessuno si arrischierà a dire che la libertà d’azione dei singoli proprietari privati conduca al miglior risultato desiderabile: i piani generali o parziali devono essere fatti dall’autorità comunale». A pronunciare queste parole, nel 1906, non era un sovversivo comunista, ma un liberale che insegnava economia politica al Politecnico di Milano e alla Bocconi (di cui sarà Rettore dal 1930 al 1934). Ulisse Gobbi, questo il suo nome, era fermamente convinto che «la buona sistemazione del proprio territorio è il primo compito del Comune, a cui esso deve provvedere con tutte le sue forze». Ne è passata di acqua sotto i ponti. A più di un secolo di distanza, sciogliere le briglia al branco selvaggio della speculazione è divenuta la missione di chi gestisce la cosa pubblica. Evidentemente per costoro l’immagine dei volumi riversati sulla città e sulla campagna dalla cornucopia immobiliarista annulla ogni preoccupazione per la qualità degli aggregati insediativi e della vita che sono destinati ad accogliere. Basta fare un giro dalle parti di Citylife o di Porta Nuova per avere un assaggio di quello che la staffetta Albertini-Moratti (Formigoni benedicente) ha preparato per Milano: devastazione, bruttezza, arroganza, invivibilità.

Il nostro professore di economia politica si preoccupava che «attività, intelligenze, capitali» rimanessero disponibili per sostenere quelle intraprese «che giovano ad accrescere il benessere del Paese». Poiché, poi, «l’aumento di valore del terreno edilizio costituisce un guadagno che non è il compenso di nessuna opera utile», bensì il frutto per lo più di investimenti compiuti dalla collettività in infrastrutture e servizi, è bene, sosteneva Gobbi, che la rendita torni alla casse pubbliche. Da qui la sua proposta di una sistematica politica demaniale, condotta estendendo il principio di pubblica utilità introdotto in Italia dalla legge 25 giugno 1865 (esproprio per esecuzione dei piani regolatori) e ampliato dalla legge 31 maggio 1903 (case popolari).

Il mattone e nulla più. Quella che viene sbandierata come la formula in grado di assicurare lo sviluppo è in realtà la via maestra che conduce dritto a due esiti catastrofici: la crisi finanziaria della pubblica amministrazione, e la perdita di competitività economica del Paese. La gran massa di denaro (dei risparmiatori) che Intesa Sanpaolo e Unicredit immobilizzano per soccorrere i vari Zunino e Ligresti viene tolta a quegli impieghi di cui la Lombardia e l’Italia avrebbero quanto mai bisogno: formazione, ricerca e modernizzazione dell’apparato produttivo.

La vicenda dei terreni destinati a ospitare l’Expo 2015 è a suo modo esemplare. Si sceglie di localizzare la manifestazione in una vasta area di proprietà privata, si mette a punto un progetto e un correlato programma di interventi infrastrutturali. Risultato: la proprietà dell’area si ritrova nella condizione di pretendere un considerevole aumento di valore senza aver fatto alcun investimento. A questo punto tra gli amministratori di scatena una guerra di lobby, tra chi vuole acquistare l’area a caro prezzo e chi vuole ripagarne l’uso in comodato con concessione di volumetrie. Comunque la si rigiri, la conclusine della vicenda è quella di un considerevole trasferimento di denaro dal pubblico al privato. Un’amministrazione che avesse avuto a cuore il bene pubblico avrebbe acquistato preventivamente i terreni a prezzi agricoli (mettendo in concorrenza diverse aree) così da togliere di mezzo gli appetiti redditieri in un’impresa che si propone di misurarsi con ben altra fame.

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