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Giuseppe D?Avanzo
Il Polo vuole cambiare il processo penale. La riforma che salva Berlusconi
14 Aprile 2004
I tempi del cavalier B.
Articolo di Giuseppe D' Avanzo su la Repubbliaca del 6 aprile 2002.

La proposta di legge alla Camera.

OGGI le cose vanno così. Per trasferire un processo dalla sede naturale a un altro diverso giudice (ipotizziamo il processo a Berlusconi e Previti da Milano a Brescia) bisogna che l' autonomia morale dei protagonisti (giudici, parti, testimoni...) sia «pregiudicata da gravi situazioni locali, non altrimenti eliminabili, tali da turbarne lo svolgimento». Franco Cordero ha spiegato da queste colonne (Repubblica, 26 marzo 2002) che, per la «rimessione» (il termine tecnico del trasferimento), «occorre la prova d' effetti perturbanti da fuori, tali che quel processo risulti patologicamente anomalo». Dunque, «non bastano i sospetti». Non è sufficiente la diffidenza o il dubbio. E' necessario che il pregiudizio sia documentato; che la «grave situazione locale» sia provata; che non ci siano infine altre strade per eliminare quella maligna influenza sul giudizio. Come se fosse consapevole del rilievo, la Casa delle libertà è già all' opera per modificare quelle regole. Non solo la rimessione ma anche i benefici delle attenuanti per gli incensurati o per coloro che hanno compiuto sessantacinque anni.

Cinque giorni prima della pubblica riflessione di Franco Cordero, la Casa della Libertà ha mosso l' iter legislativo per correggere la norma sfavorevole al desiderio del presidente del Consiglio e del suo sodale Previti di non essere giudicati a Milano, dove sono imputati di corruzione in atti giudiziari. Il 21 marzo, in commissione Giustizia della Camera presieduta da Gaetano Pecorella (avvocato del premier), l' onorevole Giancarlo Pittelli (Forza Italia) ha illustrato la proposta di legge n.1225 avanzata per iniziativa di dieci deputati: due di Forza Italia (Patria e Zanettin), tre di Alleanza nazionale (Anedda, Alboni, Cola), tre del Ccd (D' Alia, Mazzoni, Tanzilli), due della Lega Nord (Lussana, F. Martini).

La proposta - che in 44 articoli modifica, all' ingrosso e alla rinfusa, il codice di procedura penale e il codice penale - riforma integralmente le condizioni della «rimessione» adeguate a "delocalizzare" un processo. Il nuovo articolo 45 del codice di procedura penale prevede che anche soltanto il «sospetto» può giustificare il trasferimento del giudizio perché, a parere della maggioranza, il «legittimo sospetto» ha già di per sé un effetto inquinante capace di alterare l' evento giudiziario. In questo caso, la Corte di Cassazione deve rimettere il processo ad altro giudice. La norma, se approvata, andrebbe rubricata tra le leggi «di interesse privato» varate dal Parlamento per cavare al capo del governo le castagne dal fuoco di Milano. Come già è avvenuto in passato, per la riforma del falso in bilancio e le correzioni sulle rogatorie internazionali.

Purtroppo, nella proposta di legge della maggioranza non c' è soltanto la riscrittura della «rimessione». C' è dell' altro, c' è di peggio. C' è un altro articolo della «legge Anedda» (così chiamano la proposta n.1225) che sembra tagliato a misura per i due illustri protagonisti dei processi milanesi. L' articolo 40 riforma, infatti, il regime delle «attenuanti generiche», cioè degli elementi che possono operare a favore del reo. «Il giudice - si legge nella proposta di legge - diminuisce sempre la pena quando l' imputato è incensurato o ha superato il 65° anno di età... Il giudice deve applicare le circostanze attenuanti e considerarle prevalenti rispetto alle eventuali circostanze aggravanti, ogniqualvolta, per effetto della diminuzione della pena, il reato risulti estinto per prescrizione». Incensurato. Sessantacinque anni di età. Prescrizione a un passo. Tre condizioni che disegnano la condizione degli imputati Silvio Berlusconi e Cesare Previti come anche dei coimputati in toga, Renato Squillante e Filippo Verde, o senza toga, Attilio Pacifico. Al di là dell' attenzione legislativa alle preoccupazioni giudiziarie del capo del governo e del suo sodale, la «legge Anedda» stravolge al cuore il processo penale, la condizione di «libero cittadino» del giudice, la sua funzione nell' ordinamento giudiziario. La proposta di legge svela innanzi tutto una granitica diffidenza per la magistratura, il robusto sospetto che quel corpo collettivo non possa essere mai davvero imparziale. Ha sempre un interesse da difendere, un avversario da colpire, un potere da ribadire. Da qui, la volontà di affiancargli, come sostiene la relazione di Giancarlo Pittelli, «il popolo».

Interi titoli del codice penale saranno di competenza della corte d' assise dove accanto ai togati ci sono i giudici popolari. La corte d' assise oggi giudica «ogni delitto doloso, se dal fatto è derivata la morte di una o più persone», i reati che prevedono pene dai 24 anni di carcere all' ergastolo, l' omicidio, la strage. Negli auspici della maggioranza, la corte d' assise deciderà domani dei delitti contro la pubblica amministrazione (dal peculato alla corruzione); contro l' ordine pubblico; contro l' incolumità pubblica; contro il matrimonio; contro la morale familiare e, infine, dei delitti contro l' attività giudiziaria che vedono i magistrati come imputati o parte lesa.

Sei giudici popolari e due togati (spesso in luogo del giudice monocratico) si ritroveranno a giudicare la quasi totalità dei reati, anche i minuscoli. Per fare qualche esempio: resistenza a pubblico ufficiale, violazione dei sigilli, omessa denuncia (pena prevista dai 30 ai 500 euro), somministrazione colposa di elementi nocivi, favoreggiamento. Le "necessità" di questa riforma, che rinuncia definitivamente alla rapidità del giudizio, sembrano nascondersi altrove. In due "passaggi" che la maggioranza spiega così: «Alla fine di rinvigorire i principi stabiliti dall' articolo 101 («La giustizia è amministrata in nome del popolo») e 102, terzo comma, della Costituzione («La legge regola i casi e le forme della partecipazione diretta del popolo all' amministrazione della giustizia») si propone l' ampliamento della competenza della corte d' assise. Tra i vari delitti che vengano attribuiti a questo organo, sono inseriti quella contro la pubblica amministrazione e quelli in cui sono coinvolti, a vario titolo, i magistrati». E' «il popolo» dunque che deve decidere e assolvere o condannare i corrotti e i corruttori; che ha il diritto di vagliare le responsabilità dei magistrati o i loro diritti, nel caso siano stati lesi.

Ecco le ragioni: «Considerate le vaste proporzioni raggiunte, negli ultimi anni, dalla criminalità amministrativa, si è reso necessario attribuire l' accertamento del buon andamento della pubblica amministrazione a un giudice che assicuri una decisione direttamente attribuibile al popolo. Analoghe considerazioni valgono per l' attribuzione alla corte d' assise dei reati commessi dai magistrati. Quanto ai delitti che coinvolgono individui appartenenti all' ordine giudiziario, nella veste di persone offese o danneggiate, la competenza della "corte popolare" si giustifica con l' esigenza di dissipare qualsiasi sospetto di agevolazione corporativistica, che potrebbe derivare dalla decisione emessa da un giudice nei confronti di un suo collega». Un magistratura ostile al potere politico per pregiudizio o ideologia. Un corpo collettivo che, per legge, deve essere contenuto, accerchiato, controllato, nel caso minacciato. Pare questo l' obiettivo di altri due articoli della «legge Anedda». L' articolo 3 obbliga il giudice ad «astenersi» (rinunciare ad occuparsi di un affare, penale civile o amministrativo che sia) «se esistono ragioni di convenienza determinate da comportamenti o manifestazioni di pensiero o da adesione a movimenti o associazioni che determinano fondato sospetto di recare pregiudizio all' imparzialità del giudice». Come dire che, approvata la legge, sarà arduo e grave per un magistrato scrivere un articolo su un giornale, partecipare ad una manifestazione pubblica, aderire al Rotary, a Magistratura democratica e forse anche all' Associazione magistrati se l' Associazione magistrati dissente dalle opinioni del governo, di un deputato o solleva qualche obiezione a una risoluzione del Parlamento. Ancora più esplicito, in questo intento "punitivo", l' articolo 44 che introduce nel codice penale un nuovo reato, l' «abuso d' ufficio in atti giudiziari» che curiosamente deforma gli abituali motivi per l' impugnazione di una sentenza in "fatto criminale". Guai per la toga che vi incappa. Genericissimo nella definizione (l' abuso d' ufficio per i pubblici ufficiali è stato di fatto soppresso), il reato novissimo prevede per i magistrati pene severissime. Dai due ai sei anni di carcere. Se dal fatto deriva, per l' imputato, un' ingiusta condanna non superiore ai cinque anni, la pena della reclusione per il magistrato può arrivare a dieci anni. Se poi l' ingiusta condanna supera i cinque anni, il magistrato potrà essere condannato anche alla pena di diciotto anni. Come fosse un mafioso, un sequestratore, il complice di un assassino.

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