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Edoardo Salzano
Il placebo delle grandi opere: il caso Genova
15 Agosto 2019
Grandi opere
La proposta di ricostruire il gigantesco viadotto sulla val Polcevera rivela la miopia di una classe dirigente che continua a trovare nella cementificazione il suo alimento preferito.

La proposta di ricostruire il gigantesco viadotto sulla val Polcevera rivela la miopia di una classe dirigente che continua a trovare nella cementificazione il suo alimento preferito.

La commemorazione del crollo del cosiddetto ponte Morandi ha costituito una volta ancora l’occasione per rilanciare una gigantesca opera inutile figlia di tempi lontani ormai completamente superati che hanno devastato l’assetto territoriale dell’Italia.

Ci riferiamo all’epoca nella quale la motorizzazione privata era uno degli irrinunciabili obiettivi dello sviluppo economico nonché l’insegna della raggiunta “modernità” dell’italietta postbellica. L’abbandono dell’attenzione alle reti per la mobilità locale, a quella collettiva e alle reti alternative della mobilità dolce era la moda di quegli anni nei quali l’egemonia culturale ed economica delle grandi fabbriche di automobili dominava incontrastata. A quegli anni seguirono immediatamente quelli della privatizzazione delle reti e dei servizi della mobilità di persone e merci, dell’abbandono di ogni “laccio e lacciolo” alla galoppante speculazione urbanistica ed edilizia, all’incentivazione delle grandi opere inutili e spesso dannose come volano di uno sviluppo basato su mattone e cemento.

Sono state avanzate due proposte, differenti per le modalità tecniche: entrambe si propongono di ricostituire l’opera dov’era ma una nella sua versione cementizia, l’altra utilizzando le modalità, le forme e i materiali dell’acciaio.

Prima di proporsi di ricostruire semplicemente quello che era sembrato necessario in anni assai lontani occorrerebbe domandarsi quali siano le attuali esigenze di mobilità dei flussi di persone e merci. Soprattutto in un’epoca in cui l’obiettivo è risparmiare energia e ridurre l’inquinamento per cercare di minimizzare gli effetti catastrofici dei cambiamenti climatici. Occorrerebbe partire dalla consapevolezza che il territorio è un bene scarso e non riproducibile, che le tradizionali fonti utilizzate per il traporto non sono rinnovabili, e che la domanda giusta da porsi è quella di come organizzare la collocazione delle attività sul territorio in modo da consentirne la più parsimoniosa utilizzazione. Ma questo richiederebbe di restituire alla pianificazione urbanistica e territoriale la priorità che le è stata tolta nell’epoca in cui l’attenzione dei governanti ha abbandonato ogni capacità di ispirare a una visione lungimirante.

Scandalizza oggi in modo particolare il fatto che mentre da un lato non si reperiscano le risorse necessarie per garantire la stabilità del territorio, la sicurezza contro gli effetti rovinosi dei terremoti, l’esigenza di utilizzare spazi per la rigenerazione delle capacità naturali del territorio non cementificato, dall’altro lato si incoraggi a cuor leggero la spesa di ingenti risorse finanziarie pubbliche per un’ennesima opera inutile.

Abbiamo affrontato altre volte questo argomento e rimandiamo in proposito all’articolo di Guido Viale, che già un anno fa affrontava il tema con parole ancora oggi pienamente condivisibili: “Troppe grandi opere e zero competenze logistiche”.

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