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Fabrizio Bottini
Il PIL è una finzione: leggetelo sul Wall Street Journal!
8 Novembre 2011
Scritti ricevuti
Benedetto sia il mitico territorio, quando ci sbatte in faccia il fangoso e comunque assai tangibile portato di certe fregature, garantite dalle "cifre"

Il dibattito alto, come voi ben sapete, deve svolgersi ad una quota adeguata a inquadrare in prospettiva i grandi orizzonti che, soli, lasciano scorgere l’alba dietro l’imbrunire. A furia di stare in alto però, anche al netto delle vertigini, il linguaggio e i riferimenti perdono forzatamente contatto col terreno, se nessuno provvede a rifornirne costantemente i pensatori, che così riescono a tenerci ben saldi i piedi nonostante tutto. Deve essere per questo (è l’unica spiegazione che mi viene in mente) che il Wall Street Journal, una delle cosiddette bibbie del capitalismo, propone innocentemente un promemoria geografico sui modi di fare i conticini settimanali. Si rivolge alle grandi catene di distribuzione occidentali calate da qualche anno sul mercato cinese, che però a quanto pare faticano a raggiungere i favolosi obiettivi economici sperati. Perché?

Perché sbagliano a fare i conti dal Pil, spiega il giornale del 7 novembre con tono didattico in un pezzo dal titolo An Important Hitch in China’s Urban GDP Numbers. Quando elaborano i dati per le loro ricerche di mercato sui bacini locali, quando costruiscono quei diagrammi a mettere in rapporto densità di popolazione, propensione psico-sociologica ai consumi, accessibilità di certi nodi, il punto di partenza sono le cifre messe a disposizione dall’amministrazione pubblica. La quale amministrazione pubblica, prosegue puntiglioso il WSJ, racconta favole sui prodotti interni lordi regionali e cittadini che poi finiscono appunto per disorientare del tutto i cervelloni di Wal Mart, Carrefour e compagnia bella. Ci mettono del loro certi zelanti funzionari di partito che, annusando venti di luminosa carriera, truccano i dati su quanto starebbe nelle tasche dei loro concittadini. Ma c’è anche un aspetto territoriale/amministrativo/statistico da tenere nel conto, ovvero che la città cinese, i suoi tassi di crescita, il reddito medio ecc. sono concetti sfuggenti.

Anzi, allargando il campo, come notava anche David Pilling sul Financial Times, è tutto il sistema delle neo-città asiatiche ad essere diventato un universo piuttosto inconoscibile. A partire dal Prodotto Interno Lordo delle statistiche ufficiali, su cui si basano poi i modelli previsionali delle grandi catene di distribuzione, le loro strategie insediative, di marketing, di breve e medio periodo. La popolazione cresce a dismisura, dicono le statistiche, e invece è solo qualche burocrate locale che le ha “truccate” allargando i confini della città. Il procedimento corretto sarebbe quello della Statistical Metropolitan Area americano perfezionato all’inizio del ‘900, ma i nostri funzionari di partito non vanno tanto per il sottile quando si tratta della propria carriera, dei privilegi, e tutta la programmazione deve giocoforza seguire quei personalissimi sentieri.

Con buona pace dei consigli di amministrazione regionali e globali dei giganti commerciali colpiti al cuore/portafoglio da questa allegra gestione del Pil da parte dei sornioni furbastri con cui trattano abitualmente, l’intera vicenda getta un pochino di luce anche sugli ondivaghi criteri su cui si basa il feticcio della cultura della crescita cronica, l’indiscutibile dogma davanti al quale dalle nostre parti si levano il cappello quasi tutti. Quasi, perché anche dalle parti dell’ISTAT si è iniziato almeno sul versante del metodo a introdurre varianti significative. E l’articolo del Wall Street Journal, anche perché pubblicato proprio lì, sottolinea sino a che punto quella roba non sia affatto un dogma, e non sia affatto indiscutibile: la si discute eccome, quando tocca il portafoglio di chi ci paga lo stipendio. E dunque, possiamo iniziare a discuterla, seriamente, quando tocca cose, se si consente, un po’ più importanti.

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