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Giuseppe Chiarante
Il Pd e il referendum contro il popolo
18 Giugno 2009
Articoli del 2009
L’autore chiarisce i dubbi di molti. Il PD risponderà sciogliendo l'ambiguità della sua posizione? Il manifesto, 18 giugno 2009

Mi accade di frequente di incontrare conoscenti e amici che si mostrano stupiti per il fatto che i dirigenti del Partito democratico nonostante le considerazioni critiche, le perplessità e le obiezioni emerse nel loro stesso partito, continuano a pronunciarsi a favore dell'imminente referendum elettorale del 21 giugno, che in caso di approvazione assegnerà, in future elezioni politiche, il 55 per cento dei seggi in Parlamento alla lista di partito (e non più alla coalizione) che ottenga il primo posto anche con una sia pur limitata maggioranza relativa, inferiore al 50 per cento dei voti.

Lo stupore è comprensibile perché nella situazione attuale è chiaro, alla luce dei risultati sia delle europee come delle amministrative, che a garantirsi quel premio di maggioranza sarebbe il partito di Berlusconi, che anche soltanto ripetendo il 35 per cento delle europee si assicurerebbe la maggioranza assoluta al Senato e alla Camera. Ma c'è un chiaro fondamento dietro questa posizione dei dirigenti democratici: è la scelta della logica del sistema politico bipartitico. Del resto questa scelta fu già compiuta in occasione delle ultime elezioni politiche: quando Walter Veltroni impegnava il Pd a «correre da solo», senza dubbio ottiene di assorbire, sulla base del «voto utile», una parte rilevante dei voti delle minori formazioni di sinistra, ma al prezzo di annullare totalmente la rappresentanza parlamentare della sinistra più radicale e di spalancare la strada a una massiccia vittoria della destra berlusconiana.

Questa scelta di Veltroni viene ribadita oggi dai suoi successori: con la consapevolezza - c'è da ritenere - che la prima volta a cogliere il premio di maggioranza sarà Berlusconi; ma col calcolo (ipotetico) che intanto il Pd potrà rafforzarsi a spese delle altre forze di sinistra e di centro sinistra e che prima o poi, in base alle probabilità dell'alternanza, potrà giungere finalmente ad affermarsi come il primo partito.

Ciò che in ogni caso la logica dell'adozione di un sistema bipartitico non può nascondere è che, intanto, la conseguenza immediata di una vittoria del referendum sarà un netto peggioramento della già brutta legge elettorale oggi vigente (il «porcellum») dando vita ad una legge che sarebbe peggiore anche della tanto criticata legge truffa del 1953 (che richiedeva, per l'assegnazione del premio, il superamento del 50 per cento dei voti): e che sarebbe invece assai simile alla legge Acerbo con la quale il fascismo, dopo la marcia su Roma, si assicura il controllo assoluto anche del Parlamento e quindi i pieni poteri.

È comprensibile che il riferimento a questi precedenti e il richiamo ai propositi di stravolgimento della Costituzione già più volte enunciato dall'attuale premier suscitino non poco imbarazzo anche nel Pd: un imbarazzo che i dirigenti cercano (o si illudono) di dissipare sostenendo che in ogni caso l'approvazione del quesito referendario non significherà l'adozione di una soluzione predeterminata, ma solo l'abrogazione della legge attuale e che poi si potrà discuterne, in Parlamento, una nuova, magari una legge proporzionale con sbarramento sul modello tedesco, o con voto a doppio turno, sull'esempio francese. Questa tesi è del tutto infondata, anzi è di fatto una menzogna. Infatti, come già si dimostrò chiaramente quando agli inizi degli anni novanta si discusse il referendum Segni se la Corte Costituzionale ha dichiarato ammissibile il nuovo quesito referendario è perché esso, abrogando alcune norme della legge vigente, indica però con chiarezza le linee essenziali della normativa da adottare: non crea, cioè, un vuoto legislativo che sarebbe, tanto più in una materia estremamente delicata come quella elettorale, del tutto inammissibile. Se invece si pretendesse di dare alle indicazioni del referendum un valore non vincolante circa la soluzione legislativa da adottare, si ripeterebbe in modo farsesco la discussione che già si svolse quando nel 1992 il Pds, di cui era segretario Achille Occhetto decise di sostenere il referendum Segni per l'introduzione del sistema maggioritario, pretendendo però che il Parlamento potesse poi varare una legge diversa da quella che risultava dal quesito referendario approvato.

A quel tempo l'autore di questa nota era membro di diritto, a doppio titolo, degli organi dirigenti (direzione e segreteria) del Pds: sia perché presidente del Consiglio nazionale di garanzia istituito dal congresso, sia perché eletto, successivamente, anche presidente del gruppo parlamentare del Senato. Ritengo perciò doveroso dare testimonianza della discussione che in quell'occasione si svolse, sostanzialmente analoga a quella di oggi nel Pd. Anche allora infatti di fronte alle critiche alle insidie per la democrazia presenti nel sistema maggioritario quale sarebbe emerso dal referendum Segni, i maggiori dirigenti del partito, a cominciare da Occhetto, sostenenero che con l'approvazione del quesito referendario si apriva solo la strada dell'approvazione di una nuova legge elettorale, ma che le linee e i contenuti di questa legge sarebbero stati decisi nel dibattito parlamentare.

Ricordo che, insieme al comitato per il «no al referendum», mi affannai per cercare di chiarire nelle riunioni della segreteria e della direzione, che quella libertà di scelta non ci sarebbe affatto stata, perché il quesito referendario disegnava un ben preciso sistema maggioritario, quello che derivava dall'abrogazione di alcune norme della legge allora vigente per il Senato: e questa indicazione sarebbe stata vincolante, come diceva la giurisprudenza della Corte Costituzionale, anche per la definizione da parte del Parlamento delle norme elettorali sostitutive di quelle in vigore abrogate dal referendum. Tutte le nostre argomentazioni furono però respinte benché sostenute da tanti costituzionalisti. Il referendum Segni fu così approvato col voto determinante degli elettori del Pds: ma quando si giunse alla discussione in Parlamento per varare una nuova legge elettorale secondo le indicazioni del referendum, tutti i tentativi di proporre una nuova legge ispirata al modello francese o a quello tedesco furono vani, perché giudicati in contrasto con le indicazioni del quesito referendario. Si giunse così al «mattarellum», che è all'origine anche della legge ora vigente e che in questi anni ha avuto tanto peso nel favorire quel degrado politico e istituzionale in senso populistico-plebiscitario che ha portato all'affermazione del berlusconismo.

Ho voluto richiamare questi precedenti per evitare che si ripeta un analogo errore; e perché soprattutto ne tengano conto quegli elettori (compresi certamente molti simpatizzanti del Pd) che non vogliono una legge elettorale che costituirebbe una porta spalancata per un pieno successo di Berlusconi e che favorirebbe una ulteriore degenerazione di fatto del nostro sistema costituzionale nel senso di una crescente preminenza del potere esecutivo sulle assemblee rappresentative, preminenza eventualmente rafforzata anche con modifiche costituzionali in senso presidenzialista, o con l'istituzione del cosiddetto «premierato forte», che fra l'altro darebbe al presidente del Consiglio il potere effettivo di provocare lo scioglimento delle Camere.

C'è una sola strada per evitare che, col referendum, si aggravi una situazione che, in Italia, è già carica di incognite e di pericoli: è appunto la strada, prevista dalla Costituzione, della bocciatura del referendum (possibile anche qualora ci si rechi a votare per un ballottaggio, dichiarando al seggio di non voler partecipare alla consultazione referendaria e non ritirando perciò le relative schede) attraverso la non partecipazione al voto, in modo che non si raggiunga il 50 per cento dei votanti.

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