Anche chi, come il sottoscritto, ha espresso riserve sulla scelta politica del partito democratico deve riconoscere oggi che la candidatura di Walter Veltroni conferisce a quella scelta una innegabile credibilità. Messaggi e programmi marciano sulle gambe degli uomini. E la sinistra riformista ha un bisogno disperato di leadership. Quella di Walter Veltroni è una scelta felice.
Resta il problema dell’identità del nuovo partito. Non parlo di programmi. Che tocca ai governi e non ai manifesti degli intellettuali, di formulare e di gestire. Parlo dell’identità politica. La quale si riassume nella collocazione rispetto alle grandi forze politiche esistenti in Europa. E in una chiara indicazione sulla posizione che il nuovo partito assumerà rispetto al grande confronto tra la destra e la sinistra. Non è affatto vero, come è diventato di moda affermare, che quella distinzione abbia perso significato. Mai come oggi, in tutta Europa, quella contrapposizione è stata così evidente e serrata. E così ideologica, se con questa parola si intende non un travestimento – come la intendeva Marx – ma una antitesi tra visioni opposte della realtà sociale, come la intendeva Bobbio. Certo, non si tratta più della rappresentazione della sinistra come cambiamento e della destra come conservazione. Per più di un verso questa distinzione si è rovesciata. Si tratta della contrapposizione tra chi accetta i rapporti di forza che risultano dal conflitto sociale e chi pretende di correggerli e di orientarli secondo valori e obiettivi di sostenibilità e di equità. Da questo punto di vista, la questione del rapporto tra economia e politica, tra mercato e democrazia è centrale e vitale.
Il partito democratico dovrebbe assumere una posizione non equivoca sul contrasto di fondo tra una società fondata sui rapporti di forza o su valori di solidarietà. E quindi, sulla questione cruciale del posto che il mercato deve assumere nella società.
La storia dei rapporti tra il mercato e la politica (ambedue fondati sui rapporti di forza) si è alternata, nella modernità, tra condizioni di prevalenza dell’uno o e dell’altra. Non v’ha dubbio che verso la fine del compromesso socialdemocratico la politica fosse giunta, in gran parte dell’Europa, a comprimere il mercato in una morsa tra invadenza amministrativa e pressione sindacale. E non v’è altrettanto dubbio che, tra globalizzazione e finanziarizzazione, il mercato ha ribaltato violentemente, a partire dagli anni ottanta, questo rapporto. La domanda di fondo è questa. Il partito democratico asseconderà queste tendenze alla mercatizzazione, non solo dell’economia ma della società, o si impegnerà a ristabilire un equilibrio democratico tra economia e politica, tra potenza economica e potere democratico?
Questo equilibrio non comporta affatto un recupero di invadenza dello Stato rispetto al mercato. Ci sono due terreni sui quali quel rapporto dovrebbe essere riqualificato. Il primo è che lo Stato sappia programmare, anziché gestire. Su questa linea dovrebbe essere perseguita la riforma della spesa pubblica, ispirandosi ai criteri di pianificazione strategica introdotti in Francia e negli Stati Uniti. Un’amministrazione moderna deve essere informatizzata, trasparente e fortemente finalizzata. Non si tratta di meno, ma di meglio. Il secondo è che lo Stato del benessere sia trasformato in una società del benessere (la definizione è di Gunnar Myrdal), nella quale una grande parte dei bisogni sociali sia assicurata non dalla burocrazia, ma dall’autogoverno dei cittadini organizzati in associazioni autonome.
Perché questo equilibrio sia ristabilito in queste nuove forme, il partito democratico non dovrebbe tradire il progetto democratico dell’Ottantanove, costruito sui tre fiammeggianti messaggi (libertà, eguaglianza, fratellanza) ma declinati in una tonalità ben temperata (responsabilità, merito, solidarietà) evitando che si rovescino, come è avvenuto, nel loro contrario.
Quanto al mercato, resto a quello che mi sembra uno slogan persuasivo: economia di mercato sì, società di mercato, no.
E a proposito di mercato, voglio chiudere queste note con due citazioni di due grandi uomini della Destra, insospettabili di simpatie per la Sinistra. La prima, di un liberale autentico, Luigi Einaudi: «Il meccanismo del mercato è un impassibile strumento economico, il quale ignora la giustizia, la morale, la carità, tutti i valori umani: sul mercato si soddisfano domande, non bisogni». La seconda è di un altro grande economista reazionario, Joseph Schumpeter: «Questo sistema di idee sviluppato nel diciottesimo secolo (parla dell’utilitarismo) non riconosce altro principio normativo dell’interesse individuale…Il fatto essenziale è questo: che sia una causa o un effetto, questa filosofia esprime fin troppo bene lo spirito di irresponsabilità sociale che caratterizzava la passione e lo stato secolare, o meglio secolarizzato, del diciannovesimo secolo. Nel mezzo di questa confusione morale il successo economico serve solo a rendere più grave la situazione sociale e politica che è la naturale conseguenza di un secolo di liberalismo economico».