Nel 1994 , al momento della istituzione del Parco delle Alpi Apuane (la proposta di legge di iniziativa popolare per la sua istituzione, risalente al 1977, era stata firmata dalla locale sezione di Italia Nostra e dalle sezioni di Lucca, Pisa e Pistoia del Club Alpino Italiano) la Regione Toscana si è trovata a fare i conti con un’attività estrattiva alquanto ingombrante e deturpante, oggi con soli 1.000 addetti che mette quotidianamente a rischio gli acquiferi e uno dei sistemi carsici più importanti d’Europa. Netta è stata la scelta del Comune di Carrara che ha deciso di sottrarre i suoi agri marmiferi alla tutela e la stessa strada ha seguito il Comune di Massa per una piccola area alle spalle di Carrara, che ricade però nella zona della sorgente del Cartaro.
Ma, se osserviamo la cartografia allegata al piano istitutivo del Parco, ci rendiamo conto che i principi della tutela sono stati da subito sacrificati all’interesse del privato, dal momento che l’area delle cave è stata artatamente disegnata con una linea di confine grossolana, con tratto infantile, che ignora le curve di livello; una carta perciò poco attendibile scientificamente.
Potremmo definirla senza ombra di dubbio una carta “politica” , perché la Regione disponeva di carte molto precise e disegnate con i criteri convenzionali usati per la stesura della cartografia, le quali individuavano per le singole località il bacino di escavazione con completezza, indicando anche le cave lavorate nell’Ottocento e poi caducate (carte Giunta Regionale-ERTAG, progetto marmi).
Viceversa, la cartografia rispondente alla realtà è stata adottata per ottemperare alle Direttive CEE sulle aree protette (SIC, SIR, ZPS), con la conseguenza che in queste mappe gli agri marmiferi risultano (come è nella realtà) di dimensione ridotta rispetto alla carta allegata all’atto istitutivo del Parco.
Purtroppo i funzionari rilasciano i permessi di escavazione in base a quella che ritengono il documento ufficiale, cioè la carta allegata al documento istitutivo del Parco, che non risponde alla reale condizione dei luoghi.
Ma altre ancora sono le carenze: infatti non sono ottemperate, né fatte rispettare le prescrizioni (?) del Consiglio Regionale del 24 luglio 1997 che specificavano tra l’altro “le modifiche morfologiche indotte dalla coltivazione NON devono alterare le linee di crinale e di vetta”. La cava Piastramarina situata sul crinale del monte Tambura, ad esempio, ha abbassato il passo della Focolaccia (m. 1650 in origine) di oltre 50 metri, devastato parte del crinale, ma continua regolarmente la sua attività.
Poche sono le cave in galleria e sia queste poche, sia quelle a cielo aperto, intercettano vene d’acqua e occultano le cavità carsiche che incontrano durante lo scavo, con due conseguenze negative e dannose per l’ambiente e per l’uomo: nella cavità carsiche della Carcaraia capita che i laghetti abbiamo spiagge di marmettola ( polvere di marmo) e in caso di piogge abbondanti la marmettola fuoriesce dalle sorgenti che danno acqua alla città, cioè la sorgente del Cartaro e la sorgente del Frigido a Forno (la sorgente più importante della Toscana per portata), ma anche nelle grotte di Equi Terme in Lunigiana, con gravi alterazioni dell’ecosistema carsico. Meno evidenti all’occhio sono le tracce di olii usati per il funzionamento delle macchine in caso di sversamento.
E’ evidente che per queste cave sarebbe opportuna la chiusura anche perché si trovano sopra i 1.200, che è l’altitudine da cui parte la tutela prevista dal Codice dei Beni Culturali negli Appennini, tanto più che la Regione stessa nel 2000 e nel 2002 stabiliva: “ E’ da prevedere la dismissione di cave che possono palesare condizioni ambientali e paesaggistiche precarie e contrastanti”.
Si aggiunga, a sottolineare la trascuratezza della Regione nei confronti dell’istituzione, che il Parco non è al momento dotato di un regolamento e la materia paesaggistica resta ancora delegata ai Comuni, nonostante il Codice (art. 4 comma 16, Legge 106/2011) preveda gli Enti Parchi tra i soggetti cui la Regione può delegare la materia paesaggistica. Da ultimo segnaliamo questo “paradosso” tollerato dalla Regione, la quale permette che il Comune di Massa, non essendosi ancora dotato del regolamento specifico richiesto già da una legge del 1927, poi dalla legge regionale 28/2/1995, regolamenti le cave, cioè quelle aperte e quelle che ri-apre, sulla base delle leggi estensi e di un regolamento del 14 luglio 1846 (milleottocentoquarantesei) con gravi danni per il patrimonio comunale e le sue entrate. Infatti viene applicato in questo modo un regime privatistico con livelli perpetui che il concessionario può alienare e lasciare in eredità e con facoltà di subconcessione, livelli che hanno “laudemi” cioè diritti di entrature bassissimi. Viceversa la normativa regionale, essendo stati riconosciuti gli agri marmiferi “beni indisponibili”, prevede che le concessioni siano regolate secondo il diritto pubblico e cioè diventino temporanee, con il divieto di subconcessione e soprattutto con un canone adeguato al marmo scavato.
Un Parco zoppo? Sì, un Parco zoppo e una Regione cieca o che non vuol vedere!
L’autrice è Consigliere Nazionale di Italia Nostra