Chi da piazza Cavour vada per via Palestro in corso Venezia, vedrà di fronte un palazzo con un grande colonnato e sul cornicione una schiera di statue: è il palazzo progettato verso il 1812 da Giovanni Perego per l'allora sovrintendente della Scala, il Barbaja, l'inventore dellabarbajata, la cioccolata con la panna ormai dimenticata. Il palazzo del Perego, ispirato dal palazzo Chiericati a Vicenza e dal colonnato del Louvre, verrà considerato un vero scandalo architettonico, perché i milanesi erano affezionati alle facciate delicate del Piermarini — palazzo Reale e la stessa Scala — dove le colonne sporgono dal muro soltanto per metà, tagliate verticalmente in due.
Quello scandalo nessuno lo ricorda: il fatto è che il fascino della città europea consiste anche nella libertà espressiva di ogni cittadino nella facciata della propria casa, ed è la loro varietà ad incuriosirci, e dunque il progetto di Herzog de Meuron sul viale Pasubio — e la sua estensione simmetrica in viale Montello — con la facciata inclinata come un tetto spiovente per parecchi piani, così evidente imitazione delle case nordeuropee tuttora caratteristiche del paesaggio di Strasburgo, farà forse scandalo ora ma nessuno ci farà più caso di qui a qualche anno.
Tuttavia un guaio c'è. Quando nel tardo Ottocento al posto delle mura costruite tre secoli prima in tutte le città europee sono stati tracciati ampi boulevard, all'incrocio con le strade più importanti che venivano dal centro, dove c'erano spesso porte e archi trionfali o caselli daziari, sono state progettate piazze che ne esaltavano la presenza — quando ancora esistevano — o quanto meno ne sottolineavano la memoria: nella vicina porta Garibaldi l'arco sta al centro di una vera piazza, con il teatro Smeraldo a renderla solenne, mentre a Porta Venezia i caselli restano isolati all'incrocio dei due boulevard: chiunque, se volesse percorrere l'intera cerchia di quei boulevard, non farebbe fatica a riconoscere sempre l'ambizione di sottolineare le antiche porte.
A Porta Volta invece nel progetto oggi sul tappeto attorno ai due caselli daziari non c'è né la continuità dei boulevard né una piazza costituita da due facciate progettate per dar loro un quadro nobile ma soltanto l'esito dai due risvolti dei lunghi fabbricati su via Pasubio e su via Montello: in sostanza nella buona pratica seguita finora in questa città consisteva nel progettare prima di tutto la piazza e in seguito lascare ai privati di costruire liberamente lungo le strade dietro agli edifici progettati per fare una bella piazza, mentre qui i privati hanno progettato per prima cosa i loro edifici e la piazza è il risultato secondario dei loro risvolti: e si vede proprio. Ma ormai questo è soltanto uno dei sintomi della modestia di una prassi urbanistica che affida il disegno della città all'iniziativa dei privati cui delega anche quello che da secoli è il compito del Comune, disegnare il quadro di insieme, fatto dalle piazze e dalle strade che costituiscono la città, un compito di interesse collettivo che non può venire delegato a i privati.