«Il suolo consumato è oltre il 7% della superficie, mentre la media europea è poco più del 2%. Sono dati che mostrano una prepotenza dell’urbano sul rurale, un dilagare di funzioni non agricole». AT Altra Toscana, blog delle città, febbraio 2016
La vera crisi – ebbe a dire anni fa Salvatore Settis – è quella del paesaggio, che invece dovrebbe essere considerato la vera risorsa italiana, una risorsa apicale che comprende tutte le altre, come ha scritto Carlo Tosco. Settis e Tosco sono tra i massimi studiosi del paesaggio, ma basta guardarsi intorno e riflettere su quanto sta avvenendo nelle singole regioni o province per rendersi conto della ferite che continuiamo a infliggere al territorio e ai danni che stiamo facendo alla nostra stessa economia, basata essenzialmente sul patrimonio territoriale.
I dati a livello nazionale sono drammatici: il nostro paese ha un livello di consumo di suolo tra i più alti d’Europa. Secondo il Rapporto ISPRA 2015 il suolo consumato è oltre il 7% della superficie, mentre la media europea è poco più del 2%. Sono dati che mostrano una prepotenza dell’urbano sul rurale, un dilagare di funzioni non agricole nei campi, la perdita di un confine identitario che permetteva un dialogo reciproco tra città e campagna. Ora, chi è restato nei propri ambienti non li riconosce più, né è capace di trasmettere alle nuove generazioni la memoria dei luoghi, ma al massimo la malinconia, quando non l’angoscia o lo smarrimento, nell’omologazione di paesaggi tutti uguali e quasi sempre senza i connotati della bellezza e dell’armonia. E anche l’economia e il lavoro ne risentono negativamente: non di rado le zone con più capannoni e cemento sono anche quelle con più disoccupati o con più lavoro precario. Si tratta di un fenomeno che ci spinge anche a chiederci quanto cibo in meno è stato prodotto a causa della diminuzione della superficie coltivata.
Sepolti dall’asfalto e dal cemento per costruire strade, case, centri commerciali e capannoni industriali spesso rimasti vuoti, se ne sono andati negli ultimi trent’anni campi, pascoli e altri spazi rurali a vantaggio di uno sprawl che ha definitivamente rotto i confini tra l’urbano e il rurale, debordando nella campagna. L’abbandono e la cementificazione, che apparentemente sembrano due fenomeni opposti, hanno determinato in modo convergente una progressiva riduzione della superficie agricola, stravolgendo spesso gli assetti territoriali e paesaggistici. Dal 1956 al 2000 il consumo del suolo è passato da 8.700 a più di 21.000 chilometri quadrati, con un impegno pro-capite balzato da 170 a 340 metri quadrati; dopo il 2000 la situazione è ancora peggiorata, come dimostrano i rapporti annuali dell’ISPRA, l’Istituto superiore per la ricerca e la protezione dell’ambiente. Tra le regioni più cementificate, in testa c’è la Lombardia che in 30 anni ha perso un decimo di tutto il territorio agricolo, ma le altre non ridono.
Che l’Italia stia perdendo terreni agricoli in un trend negativo e continuo è ormai un dato di fatto inconfutabile. Lo ribadisce il Ministero delle Politiche agricole in un dossier realizzato in collaborazione con Inea, Ispra e Istat (MIPAAF, 2012). Dagli anni ‘70, la superficie agricola utilizzata (SAU), che comprende seminativi, orti, arborati e colture permanenti, prati e pascoli, è diminuita di un terzo, da quasi 18 milioni di ettari a circa 11. Questo nonostante le caratteristiche ambientali e il valore paesaggistico del territorio italiano, che dovrebbero (o avrebbero dovuto) evitare l’espansione urbana in zone ad elevata fragilità ambientale e territoriale. La limitazione del consumo del suolo è, quindi, unitamente alla messa in sicurezza del territorio, una direzione strategica per l’Italia. Tutti lo dicono, ma nonostante le enunciazioni si continua a consumare suolo.
Questi dati suggeriscono inequivocabilmente che ci sarebbe bisogno di una inversione di rotta. Un sensibilità sempre più diffusa nella società spinge nella direzione di uno stop al consumo di suolo e anzi di una sua riduzione, come dimostrano i comitati nazionali e locali, sempre più diffusi, per salvare il paesaggio in nome della Costituzione italiana, che fissa tra i principi fondamentali la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della nazione (articolo 9). Invece si va in direzione opposta, ostinata e contraria, miope e pericolosa. Dappertutto, anche in Toscana. Prendiamo l’esempio della Val di Cornia.
L’esempio della Val di Cornia
Questo lembo di Maremma, compreso tra il mare e le colline Metallifere, nella terra degli etruschi e dei borghi medievali, delle tradizioni minerarie e metallurgiche su un persistente sfondo rurale, ha conosciuto nel corso del ‘900 l’impatto dell’industria, massiccio ma centralizzato. Ad esso si è aggiunto in tempi più recenti un impatto più diffuso, legato essenzialmente a uno sviluppo edilizio progressivo, spesso immotivato e a volte puramente speculativo. Si tratta di un processo che non nasce oggi, che si è avviato concretamente negli anni ’60, in concomitanza con il boom economico. All’inizio ha preso la forma della costruzione di nuovi edifici all’interno e intorno ai centri urbani, snaturando la loro immagine. La pianificazione urbanistica è arrivata tardi a regolare e contrastare questo fenomeno, che tuttavia era spinto dalla crescita demografica ed economica. Quindi si poteva capire, in un certo senso e in quel dato contesto. Poi la popolazione ha smesso di crescere, ma il consumo di suolo è continuato senza sosta. Si è passati dall’espansione/ammodernamento dei vecchi paesi alle lottizzazioni fuori dai centri abitati, poi alle zone artigianali/industriali e commerciali, anch’esse collocate in zone rurali. Il piano strutturale della Val di Cornia, elaborato una decina d’anni fa, registra come tra anni '70 e '80 vi sia stato un significativo calo demografico a Piombino e nel resto dell’area, segno evidente di una prima crisi del sistema, ma a ciò non ha corrisposto un arresto del consumo di suolo, che anzi è aumentato; i venti anni successivi vedono in tutti i Comuni un ulteriore incremento dell’occupazione di suolo a fini residenziali, produttivi e turistici (Circondario della Val di Cornia, Piano strutturale d’area. Relazione generale, febbraio 2007, p. 224).
A differenza di quanto era avvenuto negli anni '60 e '70, questo processo di edificazione della campagna (dalle lottizzazioni, alle zone artigianali e commerciali, alle residenze turistiche), intensificatosi a cavallo del 2000, si è svolto essenzialmente entro un quadro di stasi o addirittura di declino demografico e di rallentamento della crescita economica. Ciò significa che si è consumato più suolo quando ce n’era meno bisogno, come dimostrano i grafici relativi ai due comuni principali, Piombino e Campiglia Marittima, così come rilevato dalle analisi dell’ultima pianificazione urbanistica intercomunale:
(vedi figure 1 e 2 in fondo)
Si vede bene il paradosso della forbice: meno popolazione, più consumo di suolo. Una forbice che ha tagliato risorse e opportunità di sviluppo, il contrario di quanto vanno dicendo i propugnatori di una modernità stanca e di un illusorio e spesso ideologico sviluppismo. Il consumo pro-capite di suolo ha significato in primo luogo alterazione del paesaggio, frattura del consolidato equilibrio tra città e campagna, nuovi costi ambientali in termini di uso delle risorse naturali, ridefinizione delle identità sociali. Ne derivano danni all’agricoltura e al turismo, che invece dovrebbero rappresentare il primario orizzonte di rinascita per un’area a declino industriale.
La situazione non è omogenea e tale diversificazione ci offre l’opportunità di capire quale dovrà essere il modello di riferimento per il futuro: se quello delle zone più intensivamente urbanizzate come Piombino, Venturina e San Vincenzo, oppure quelle che hanno mantenuto una maggiore disponibilità di patrimonio territoriale autentico come Suvereto, Campiglia, Castagneto Carducci o Sassetta. Sono ancora i dati ISPRA che ci indicano il quadro oggettivo della situazione: Piombino e San Vincenzo presentano un tasso di consumo di suolo superiore alla già elevata media nazionale; anche Campiglia è sopra la media, ma qui il dato andrebbe scomposto perché il consumo abnorme di suolo riguarda soprattutto Venturina. Suvereto, Sassetta e Castagneto, subito a nord della Val di Cornia, nettamente più virtuosi con un consumo di suolo ben al di sotto della media italiana.
(vedi figura 3 in fondo)
Eppure anche qui, proprio nei comuni a più elevato consumo di suolo, si va in direzione contraria. L’ultimo esempio? A Venturina, nella bella e fertile campagna a est della Monaca, minacciosi cartelli e recinzioni annunciano la costruzione di nuovi capannoni. Praticamente si apre un altro fronte di espansione edilizia, con nuovi capannoni mentre ce ne sono altri che giacciono vuoti e semiabbandonati nello stesso territorio comunale, esattamente come in tante altre parti d’Italia.
Uno scempio inutile e vano, campi fertili che se ne vanno e il paesaggio deturpato, perfino le pregiate colline retrostanti di Lecceto, del Palazzo Magona, di Villa Mussio e di Montesolaio (detta del Tavolino rovesciato), contenitori di residenze storiche e di agricoltura di qualità, risultano ferite da questi avulsi insediamenti ai loro piedi, frutto dell’impeto speculativo e da una idea anacronistica dello sviluppo economico. Non contenti, sono intanto in preparazione, per la stessa area, varianti urbanistiche che prevedono nuova occupazione di suolo con capannoni e centri commerciali, così oltre all’agricoltura morirà anche il piccolo commercio attivo nel vicino centro abitato di Venturina, cresciuto sui negozi e le attività di servizio alla popolazione del comprensorio e oggi annichilito dalla corona di centri commerciali che gli sono nati attorno. La strategia è sempre la solita, subdola e insipiente: acquisire le aree, abbandonare i campi, lasciarli incolti in attesa delle varianti per poi dire “che volete? Ormai sono tutti ceppite e terreni abbandonati”. No, erano i migliori campi della Val di Cornia, suoli fertili e sciolti di natura alluvionale, nei quali – dicevano i contadini del posto - ci verrebbe il pepe. Ora crescono qui piantagioni di cemento, freddi alberi senza frutti, trasformazione irreversibile del territorio e del paesaggio, pezzi di Maremma che se ne vanno per sempre.
Una tale analisi deve costituire la base per ragionare su un nuovo modello di sviluppo, che parta dalle vocazioni autentiche di un’area, dal patrimonio territoriale, dai valori storico-ambientali e dalla partecipazione sociale, che non riproponga i vizi di quell’economia speculativa che si è progressivamente sostituita all’economia produttiva alimentando il paradosso della forbice, generando degrado e disoccupazione, spaesamento e perdita di fiducia. L’area presa in esame è solo un esempio, da cui si possono trarre indicazioni utili per una importante e decisiva questione nazionale: quella del consumo di suolo e delle ferite inferte al paesaggio, vere e irrinunciabili risorse del Bel Paese.
Rossano Pazzagli insegna storia moderna e storia del territorio all’Università del Molise, fa parte della Società dei Territorialisti, è direttore della Summer School sul paesaggio agrario presso l’Istituto Alcide Cervi.