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Ilvo Diamanti
Il Paese immobile rinchiuso nella sua casa
22 Maggio 2006
Articoli del 2005
Gli italiani e la casa, l’Italia e e rendite, immobiliare e finanziaria, l’Italia e le corporazioni: qualcuno del centro-sinistra ci dirà che cosa si intende proporre per un nuovo governo? Da la Repubblica del 19 giugno 2005

Siamo un paese immobile. O meglio: immobiliare. Visto che il reddito delle famiglie deve molto alla casa. Circa otto famiglie su dieci sono proprietarie dell´abitazione in cui vivono. Il 15% ne possiede almeno un´altra. La casa è fonte di sicurezza. Protezione. Altrimenti non si capisce come potrebbero, molte famiglie, finire il mese con lo stipendio di cui dispongono. Se dovessero, appunto, pagare un canone d´affitto. La casa è "investimento" per i figli. Patrimonio trasferibile. Per i giovani, nel futuro, è fonte di reddito integrativo (anch´essi non pagheranno l´affitto, domani). E "capitale" che si apprezza costantemente. Perché il valore delle abitazioni è cresciuto e continua a crescere in modo smisurato. La casa è il porto, per i giovani. Che navigano e navigano lontano. Viaggiano. Ma poi tornano. Puntualmente. Cambiano la valigia e ripartono. Per motivi di studio o di lavoro. Oppure per fare esperienza. Ma restano legati alla loro famiglia, sempre più a lungo, fino a 30-35 anni.

Giovani per forza. Se ne andranno di casa quando avranno trovato un impiego che li soddisfa, quando troveranno una compagna o un compagno con cui condividere il rischio della vita. Dunque il più tardi possibile. Quando i genitori daranno loro una casa.

La casa. E´ il fattore che ha garantito, negli ultimi anni, la crescita del reddito delle famiglie (come ha mostrato un recente rapporto del Censis). Perché, nonostante quasi tutti abbiano un´abitazione, si continua a costruire e a comprare. Per tutelare il reddito. Per incrementarlo.

Tra i principali fattori di "arricchimento", negli ultimi anni (come ricordano Dario Di Vico ed Emiliano Fittipaldi, in "Profondo Italia", edito da Rizzoli), c´è, infatti, la rendita da affitto. Che, dopo la liberalizzazione delle locazioni, è divenuta vantaggiosa, da rischiosa qual era. Soprattutto se si dispone di immobili in città universitarie (e in ogni villaggio, ormai, si apre un corso di laurea). Affittare un appartamento a uno studente (ma anche a un immigrato) corrisponde a uno stipendio.

Certo, non tutti possono comprare case. Per cui il reddito si sta ridistribuendo in modo ineguale. A sfavore dei redditi da lavoro dipendente. E, comunque, molti di coloro che acquistano la casa lo fanno accendendo un mutuo. Un prestito. (Quattro su dieci tra chi vive in una casa di proprietà, secondo una recente indagine Demos per l´Osservatorio sul Nordest). Per cui la casa alimenta, in modo cospicuo e continuo, i flussi finanziari che legano le famiglie alle banche e al credito. Sono come i Bot e i Cct. Sopravvissuti al loro declino. E come i Bot e i Cct costituiscono un segnale, inequivoco, che il sistema economico stagna. In altri termini: riflettono (e alimentano) la narcosi sociale dello spirito di "mercato".

Un paese immobiliare: dove i costruttori accumulano grandi ricchezze, che reinvestono nella finanza e nell´informazione. Un´economia sociale fondata sulla "casa", dominata dagli "immobili", che tende a riprodurre una società "immobile". Anche letteralmente: dal punto di vista della residenza. Chi ha una casa, normalmente, progetta di trasmetterne la proprietà ai figli. Nella speranza (non infondata) che un giorno gli subentrino. E chi acquista (o costruisce) un´abitazione per i figli si preoccupa che non sia troppo lontana. Per mantenere saldi i legami di reciprocità. Affettivi, solidali e utilitaristi. Non per altro, otto persone su dieci, in Italia, hanno un parente stretto - figli, fratelli/sorelle, genitori - che abita nello stesso comune (Indagine Demos-Eurisko, ottobre 2004). Altrettante vivono nel comune in cui risiedono dalla nascita. Per cui gran parte delle famiglie sono "stanziali" da diverse generazioni.

Siamo un paese "tribale" per professione. Nel senso che ogni professione recinta gli spazi in cui si svolgono le sue attività, in modo da controllarne l´accesso, rendendolo inagibile ai più. Un paese di notai, farmacisti, giornalisti, avvocati, magistrati, ingegneri, commercialisti, consulenti del lavoro, medici, musicisti. Tutelati, tutti quanti, da "ordini professionali" che gestiscono prestazioni e operazioni, intrecciate, indissolubilmente, con la nostra vita quotidiana. Per comprare - progettare o modificare - una casa, vendere un´auto a un privato, pagare le tasse (il meno possibile), acquistare un´aspirina, contestare una multa, formare o sciogliere una società, occorre sempre e comunque rivolgersi a una figura professionale "legittimata". Ogni atto e ogni relazione di pubblico (ma anche privato) interesse ci impone di ricorrere a professionisti che appartengano a un Ordine. Non siamo lontani dall´ancien régime. Dalla società dei ceti. Dove il posto di ciascuno - nella gerarchia dei poteri - era ascrittivo. Dunque ereditario. Difficile, praticamente impossibile modificare i confini di questo sistema tribale. Di questa repubblica microcorporativa. "Liberalizzare", come si suol dire oggi, è una impresa quasi impossibile. I tentativi di rivedere la legislazione sugli ordini professionali, dopo un lunghissimo e tortuoso percorso, si sono arenati. D´altronde, sospetto, poco meno della metà dei membri del Parlamento sono "professionisti" iscritti a qualche Ordine. Come immaginare che possano legiferare contro se stessi e i propri privilegi? Che possano favorire la "concorrenza" (come ripete, in modo martellante, Confindustria, per bocca di Montezemolo e Cipolletta)? "Liberalizzare" l´economia? Al più possono contribuire a "privatizzarla". Ma in Italia il privato è, spesso, più protetto e protezionista del pubblico. E le imprese, gli imprenditori, rivendicano la concorrenza, ma, nei fatti, dimostrano di temerla.

Siamo un paese di "giovani invecchiati". O di adulti che non si rassegnano a invecchiare. Dove si è giovani - flessibili e precari: la precarietà rende giovani - fino a quarant´anni. Dove tutti, o quasi, i luoghi di potere - in politica, in economia, nel mercato - sono controllati da "giovani anziani". Dove presidenti, papi e vescovi hanno circa ottant´anni; i premier (e i candidati premier) settanta; i banchieri, i leader di partito (quasi tutti ex), di sindacato e delle associazioni di categoria, i direttori di giornali e i professori universitari, attorno a cinquanta (e alcuni di più). Dietro a loro c´è la penombra. Dove si muovono generazioni invisibili. Che per conquistarsi la visibilità - e l´autonomia - si immaginano veline, "costantini", hacker, disc-jockey. Oppure consulenti finanziari (immobiliari), cooperatori internazionali, volontari (di professione). Mestieri nuovi. A volte fatui, a volte nobili. Dallo statuto, comunque, incerto. Generazioni costrette ad attendere, per avere spazio e potere, quando avranno, a loro volta, cinquanta o sessant´anni. Un paese immobile.

Dove la mobilità sociale è frenata da barriere professionali, generazionali, familiari, territoriali. E l´economia, insieme al lavoro, per sfuggire a questi vincoli, a questa rete di veti e di resistenze, si inabissa. Sceglie l´informale, naviga nel sommerso. Come rivendica, quasi con orgoglio, Berlusconi, per spiegare che non ci dobbiamo lamentare dell´economia, del mercato. Vanno bene, marciano, con passo rapido e sicuro. Solo che non si vedono.

Siamo un paese conservatore. E lo siamo diventati tanto più, sempre più nell´ultimo scorcio della nostra storia. Perché è difficile "riformare" l´economia e il mercato, promuoverne l´apertura, la liberalizzazione, se ad ogni angolo, in ogni contrada, in ogni casa prevale la paura del cambiamento. Perché ogni cambiamento, ogni apertura mette a rischio i mille piccoli privilegi, le mille protezioni, i mille interessi, le mille rendite di posizione, che trapuntano la nostra società.

Ed è difficile riformare il welfare, intervenire sulle pensioni, se il corpo del mercato del lavoro è costituito di adulti e anziani, se i giovani e i giovanissimi traggono dalle pensioni, dalle rendite e dalle case in proprietà dei genitori (anziani) possibilità di vita, oggi, ed eredità patrimoniali domani. Se coloro che governano e controllano i centri di potere, del mercato, del lavoro e delle professioni sono anziani-giovani, che intendono difendere e tutelare la loro posizione a lungo.

Siamo come un lago attraversato da mille correnti, che corrono sotto il pelo dell´acqua. Ma lasciano la superficie immobile.

Per questo, però, rischiamo di diventare - e, forse, stiamo diventando - un paese fermo. Irriformabile.

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