1. C’è sempre più bisogno di paesaggio
La percezione, drammaticamente nitida, degli effetti generati dalla frenetica trasformazione che interessa, oramai da trent’anni, gran parte del territorio italiano (e non solo) chiede a noi tutti, urbanisti o amministratori, esperti o semplici cittadini quanto meno una pausa di riflessione.
Una riflessione che dal punto di vista degli addetti ai lavori dovrebbe essere dedicata, in prima istanza, alla ricerca di un effettivo punto di incontro tra approccio analitico e capacità di dare risposte concrete alla crescente domanda di paesaggio posto dalla nostra società. L’assunzione di impegno a spendersi per una comprensione non solo teorica, ma anche propositiva, dei fenomeni della dispersione nell’intento di arginare, e se possibile correggere, quanto avvenuto (e sta avvenendo) nei nostri territori in termini di consumo di suolo e di risorse vitali, di produzione di caos funzionale e di malessere dell’abitare[1].
All’interno del dibattito avviatosi già da qualche anno e centrato sulla necessità di una riforma culturale e operativa dell’urbanistica, finalizzata a ricucire i fili di un discorso slabbrato e sempre più autoreferenziale, sembra riaffacciarsi sulla scena dell’immaginario disciplinare, a distanza di quasi cinquant’anni dalle prime formulazioni, quel concetto che a cavallo degli anni ’50 e ’60 andava sotto il nome di «progettazione integrale»[2].
Non saprei dire se la definizione possa essere ritenuta ancora appropriata, almeno sul piano del linguaggio specialistico. Comunque sia, al di là di ogni interpretazione o sfumatura terminologica (verso le quali nutro, soprattutto in questa sede, scarso interesse), ciò che mi sembra importante sottolineare è che tale concetto, nella sua formulazione originaria, esprimeva fiducia nella continuità tra pianificazione socio-economica, piano urbanistico, intervento architettonico. Il tutto si sintetizzava in un nuovo modello di sviluppo, quello della pianificazione regionale teorizzata tanto dai geografi quanto dagli urbanisti[3], e nell’immagine della cosiddetta «città-regione», definita dai protagonisti del dibattito di quegli anni come “esperienza insieme architettonica e urbanistica che supera le limitazioni insite nei concetti di edificio, di quartiere e di città, per interessare tutto, alla sua vera grandezza, l’ambiente per la vita dell’uomo”[4].
Ma la bontà di un’idea, sappiamo, non la rende, necessariamente, vincente. Così di lì a poco, nelle diverse posizioni accademiche, che vedranno l’opporsi dell’«architettura» all’«urbanistica», si farà strada un’interpretazione totalmente diversa di questo che inizialmente sembrava essere, invece, un obiettivo condiviso: saperi e relativi percorsi esperienziali tenderanno a radicalizzarsi nel tentativo di avere il primato sugli studi della città e del territorio.
Non è questa la sede dove ripercorrere, anche solo i tratti più salienti, della storia dell’urbanistica italiana dal dopoguerra ad oggi. Mi interessa invece sottolineare come, nel cercare tracce di paesaggio, è possibile riconoscere al dibattito della fine degli anni ’50, e di quello poco successivo, un’attualità davvero straordinaria ed anche un’originalità poi rapidamente obliterata a favore di una diversa preoccupazione: quella di mettere a punto strumenti di analisi finalizzati principalmente a fondare scientificamente il piano, relegando ad un ruolo del tutto subalterno la conoscenza e il rispetto per la «materialità del territorio», il suo essere palinsesto fisico, economico e sociale, considerando ininfluente il suo futuro assetto formale e fisico.
Tutto ciò non desta alcuna meraviglia. Del resto, com’è stato scritto, le tracce di paesaggio rimandano ad “un paradigma debole e multiforme, nato su un termine anfibio, capace di connotazioni molteplici, resistente ad ogni esclusiva connotazione, in cui conoscenza e modificazione si intrecciano, scambiandosi volentieri i ruoli”[5]. Le stesse ragioni che portano al centro della discussione disciplinare anche il tema del paesaggio vanno cercate in dominanti molto variegate: dalla maggiore attenzione e preoccupazione verso le questioni ambientali[6] alla riscoperta dell’arte e del valore olistico dei luoghi[7], dal crescere dell’approccio patrimonialista che inserisce il paesaggio nel catalogo dei beni e delle risorse storico-culturali all’azione riformatrice della Convenzione Europea del Paesaggio.
Guardando all’oggi, quello che appare fecondo è il dilatarsi, sempre più fiducioso, dei confini disciplinari, espressione di un’attitudine intellettualmente e scientificamente più generosa che lascia spazio a questo comune sentireper il paesaggio che aggrega, in modo sempre più ampio e convinto, esperti tecnici e opinionisti di vari settori, ma anche associazioni di cittadini e perché no? persone comuni.
2. “Who owns the paradise?”: il paesaggio tra interessi particolari e visione di bene comune
Il paesaggio, come abbiamo visto, rappresenta un campo di interesse che più facilmente di altri riesce a mettere insieme approcci disciplinari e culturali diversi, uniti dalla comune volontà di riconoscere allo stesso una straordinaria qualità maieutica.
Il paesaggio si presenta come fucina di idee, come grande laboratorio,sempre più affollato e variegato, dove si incontrano saperi diversi e dove si sperimentano non solo e non tanto nuove teorie o nuovi filoni di ricerca[8]. Un contesto in cui – quando parliamo di progetto di luoghi – si mettono a punto, nel confronto con gli abitanti, nuove prassi e nuove, ed originali, forme di progettualità.
Forse per questa ragione, nella disciplina urbanistica, così come nella pianificazione, il paesaggio costituisce, al di là di qualunque ragione strumentale, un tema sempre più ineludibile, un discorso obbligato (sarebbe troppo ottimistico definirlo centrale) anche nella gran parte dei dibattiti pubblici.
C’è allora da domandarsi quale sia la vera causa di questo progressivo irrompere del paesaggio nel discorso della cultura urbanistica. Ma poi ancora: se e come il paradigma del paesaggio possa far emergere una nuova cultura capace di innovare i saperi e le loro forme di espressione.
Indubbiamente la Convenzione Europea sul Paesaggio (CEP) ha giocato un ruolo fondamentale nel dinamizzare gli interessi e le azioni sul terreno del paesaggio facendolo diventare un tema importante – non più subordinato – del dibattito urbanistico. La CEP ha contribuito anche a dare vigore alle riflessioni teoriche riproponendo il quesito relativo su come interpretare e valutare il rapporto tra trasformazione del territorio e produzione di paesaggio, facendo emergere la grande disponibilità di conoscenze, competenze e interessi trasversali che consentono al paesaggio, appunto, di diventare un terreno di sperimentazione culturale, politica e tecnica.
C’è poi da chiedersi quanto questo parlare paesaggio corrisponde effettivamente al diffondersi di una lingua franca, di un codice comune,che scaturisce, prendendo a prestito le parole di Danilo Dolci,da “un concepire affine, disponibile ad ampliarsi nel confrontarsi”[9].
La ricerca di un linguaggio comune sembrerebbe soddisfare il bisogno di comunicare in modo sempre più ampio la convergenza di interessi e di obiettivi che, come dicevo all’inizio, accomuna molte e differenti discipline. Il paesaggio ci appare allora come risorsa anche in quanto struttura comunicativa, che come tale non si limita al solo dialogo, ma si spinge all’interazione comunicativa, si propone cioè come “alternativa ai tradizionali rapporti unidirezionali” [10].
Malgrado i molti segnali positivi, la battaglia contro la diffidenza nei confronti di questo «paradigma debole e multiforme» non è del tutto vinta. Per questo è utile affermare che ragionare sul paesaggio non significa, come ancora qualcuno pensa, attardarsi a discutere di questioni astratte. Riformare l’approccio alla comprensione e alla gestione delle trasformazioni territoriali, proprio a partire dal paesaggio, può significare, al contrario, riuscire a dare una chance a quella che potremmo definire, prendendo a prestito un felice ossimoro di Ernst Bloch, un’ “utopia concreta”[11].
Non mancano neppure voci critiche, o fortemente dubbiose, sulla correttezza e sull’efficacia del messaggio espresso dalla Convenzione Europea sul Paesaggio. Queste posizioni di dissenso, espresse da figure molto impegnate proprio nella difesa dell’integrità del paesaggio, fanno leva sull’interpretazione di alcuni dei passaggi chiave del testo della Convenzione.
Uno di questi è quello che associa (i detrattori dicono: vincola) il paesaggio alle sorti dello sviluppo locale.
La critica mossa alla coppia paesaggio-sviluppo locale deriva dal fatto che secondo questa lettura interpretativa il paesaggio, per essere considerato risorsa, dovrebbe sottostare alle regole del mercato, della competizione, delle performance produttive, ….
C’è in effetti il rischio, è inutile negarlo, di una pericolosa banalizzazione, se non addirittura di mistificazione, dell’idea stessa di paesaggio, quando tendiamo ad associarlo allo sviluppo. Ed é un rischio non esclusivo solo dell’esperienza italiana. Guardando però all’Italia possiamo dire che, a dispetto dell’articolo 9 della Costituzione, il nostro Paese, purtroppo, s’è distinto per un comportamento tutt’altro che virtuoso.
Proprio per scongiurare questo pericolo credo sia molto utile provare a guardare con maggiore attenzione al di fuori dei nostri confini, ai molti esempi positivi che con la loro presenza ci rassicurano sulla praticabilità di scelte alternative da cui trarre alcuni utili insegnamenti.
Penso innanzitutto al caso della Francia, e alla grande campagna fotografica associata alla rivisitazione dei valori del paesaggio messa in campo già da alcuni decenni prima dal DATAR e poi dal Ministero dell’Ambiente con lo scopo di documentare il territorio nazionale e di stabilire un punto di partenza da cui far emergere politiche di tutela e di valorizzazione nuove affinché il “prodotto territoriale”, scaturito da queste eventuali trasformazioni, possa considerasi compatibile con le politiche di tutela ma anche di costruzione di nuovi paesaggi di valore[12].
Poi penso alla Spagna, più in particolare alla Catalogna, al grande e capillare lavoro messo in campo sin dal novembre 2004 dall’Observatori del Paisatge, struttura tecnico-politica che potremo considerare una sorta di cabina di regia da cui deriva il coordinamento di tutte le attività di pianificazione, di messa in atto – attraverso le Carte del Paesaggio – di innovativi strumenti di governo del territorio che obbligano a considerare il paesaggio come punto di partenza di una nuova organizzazione spaziale, attribuendo alla sua tutela e alla sua corretta valorizzazione (non alla sua mercificazione) il ruolo di volano dello sviluppo[13].
Altrettanto positivamente potremo parlare, com’è noto, dell’Inghilterra, così come di molti altri paesi europei che da tempo hanno messo in conto la necessità e l’utilità di un censimento e della catalogazione dei paesaggi tradizionali, di quei milieu in cui si riconoscono interrelazioni ancora molto forti tra dimensione culturale, sociale, economica[14]. Contesti contraddistinti da valori simbolici e associativi assai complessi di cui il paesaggio è forse la più efficace forma di espressione/rappresentazione.
Le esperienze citate, le volontà istituzionali che le hanno prodotte, ma anche le comunità che le hanno faticosamente fatte proprie, e il cambiamento di valori che questa nuova consapevolezza comporta, fanno immaginare il paesaggio (soprattutto quello tradizionale) come laboratorio di cittadinanza costruita attraverso la riaffermazione del suo mandato più nobile: quello educativo, inteso in termini di riscoperta delle radici e dei processi evolutividelle identità locali e tradotto, laddove l’osmosi tra generazioni è ancora forte, nella “ricerca di un inserimento armonioso” dell’opera dell’uomo nel mondo naturale, sostituendo “l’atteggiamento del predatore” come lo definisce Serge Latouche, “con quello del giardiniere”[15].
Non c’è spazio, né tempo per poter approfondire adeguatamente l’argomentazione. Credo valga la pena ritornare su queste riflessioni perché trovo che vi siano moltissime analogie tra l’idea di una nuova concezione di paesaggio, scaturita da un importante cambiamento di valori culturali e sociali, e il “circolo virtuoso della decrescita serena” di cui parla largamente Latouche[16].
3. Paesaggio: territorio abitabile, ma con cura.
Rosario Assunto afferma che il paesaggio può essere assimilato al concetto di “realtà in cui l’uomo abita”. Una realtà che “egli esperisce direttamente, può produrre, modificare (secondo l’inglese landscaping) in meglio o in peggio; o anche distruggerla, cancellandola dal proprio orizzonte”[17].
Seguiamo ancora per un attimo il pensiero di Assunto.
Egli ci dice che il paesaggio è uno spazio (o una rappresentazione dello spazio). Dunque il paesaggio non occupa uno spazio, né è oggetto nello spazio. In altre parole, secondo Assunto, la nozione di spazio è costitutiva (ma non esaustiva) del concetto di paesaggio.
Nella valutazione dell’esperienza pratica, ci viene anche fatto osservare, però, l’identificazione del concetto di paesaggio con quello di spazio è stata portata all’estremo. L’ «idea del paesaggio come spazio», in altri termini, non sembra soltanto esprimere un punto di arrivo, ma addirittura si può dire che esso incarni l’epilogo stesso della storia del paesaggio, che si traduce, appunto, nel trattare il «paesaggio come puro spazio».
Sul piano concreto Assunto suggerisce di guardarsi attorno, facendo un semplicissimo esercizio che è quello di “percorrere una delle tante autostrade costruite negli ultimi decenni, oppure ispezionare uno qualsiasi degli insediamenti d’abitazione, degli impianti industriali, dei complessi turistici che sono stati costruiti negli ultimi dieci e quindici anni”[18]. In Italia, continua Assunto, il fenomeno di banalizzazione è stato forse più vistoso che altrove, raggiungendo proporzioni macroscopiche. Le ragioni di questo drammatico “primato” vanno ricercate in una sorta di “voluttà sostitutiva, derivata dal sentirsi artefici di una vera e propria rivoluzione culturale, al negativo, che si avventava contro il paesaggio della memoria e della fantasia per ridurlo a semplice spazio della geometria”[19].
La rivoluzione culturale di cui parla Assunto vede moltissimi attori principali, purtroppo, anche tra gli architetti e gli urbanisti. Ad essi, ma non solo ad loro, Assunto attribuisce molte delle responsabilità nell’aver retrocesso il paesaggio a «semplice spazio».Tutto il nostro territorio, ci rammenta, “è segnato dai residui della produzione e del consumo: frammenti morti di materiali in gran parte, com’è noto, indistruttibili”[20].
A questo proposito, é utile ricordare che la crescente attenzione versi i temi del paesaggio nulla ha potuto, però, contro il dannosissimo depositarsi sul suolo italiano di detriti edilizi, residenziali o produttivi, così come di discutibili opere infrastrutturali. Come non riflettere, anche qui, sulla colonizzazione arrogante e indifferente, cifra indelebile di moltissime aree del nostro territorio, su quella territorializzazione scellerata che ha portato con sé l’inevitabile male di vivere (e di lavorare), delineando con drammatica precisione i tratti di quel «paese spaesato» di cui parlano sempre più spesso molti cittadini e che gli addetti ai lavori e gli analisti costantemente registrano[21].
I dati, messi a disposizione da Legambiente e dal CRESME in una relazione del giugno 2007 e ripresi da Francesco Erbani in una cronaca che utilizzo come fonte, ci parlano di 3 milioni 231 mila appartamenti realizzati nell’ultimo decennio. 331 mila costruiti solo nel 2006 dei quali 30 mila abusivi. E poi ancora 7 mila capannoni sorti soltanto nel 2005. Non si contano quelli già precedentemente realizzati e inutilizzati. Ma ci sono anche 6 mila cave attive e circa 10 mila dimesse. Un patrimonio, dice Lorenzo Bellicini, direttore del CRESME, stimato attorno ai 53 metri cubi di cemento per ogni cittadino italiano. Ma questo, si intuisce dall’articolo di Erbani, rappresenta solo un piccolo assaggio de “l’assalto al paesaggio” di cui parla Erbani nel suo articolo. Alle considerazioni sulla quantità vanno affiancate quelle sulla qualità del prodotto urbano e post-urbano esprimendo un giudizio non meramente estetico della materia sciatta che dà forma e sostanza alla città occasionale e diffusa [22].
L’esperienza empirica consigliata da Assunto, ci aiuta sotto diversi punti di vista.
In particolare esorta ad indagare a fondo, e in modo più specifico, anche se ancora per difetto, sulla coppia paesaggio-risorsa ricavandone, indirettamente, il monito ad addentrarsi con grande cautela nel terreno incerto della cosiddetta valorizzazione del paesaggio, che troppo facilmente è stata assimilata, pensiamo ad esempio alle politiche per il turismo, ai concetti di “produzione” e di “consumo”[23], declinazioni assolutamente compatibili con i principali attributi dell’essere in sé risorsa: la soggettività, la relatività e la funzionalità.
Ma quali dunque allora le alternative? Arturo Lanzani, in uno scritto del 2002, propone sette strategie per il paesaggio[24]. Non trovo esplicitata, forse perché già compresa nelle diverse formulazioni, l’idea di paesaggio come milieu[25]. Personalmente credo che la complessità dei temi del paesaggio possa essere ricondotta ed interpretata in modo ancora più corretto se letta in chiave di milieu. Anzi, proprio questa dimensione, composta tanto di oggetti che di valori[26], consente di rendere evidente il ruolo da attribuirgli anche nel campo dell’agire urbanistico.
Utilizzare il concetto di milieu significa interpretare in modo ampio il paradigma del paesaggio come risorsa e di stabilire le regole attraverso cui costruire il progetto locale non come esperienza assoluta ma di progetto latente (o il progetto implicito di cui parla Dematteis) dove il paesaggio si manifesta come luogo di rappresentazione delle necessità e degli interessi collettivi[27].
4. Paesaggio passato. Paesaggi futuri.
In chiusura vorrei provare a fare un rapido salto indietro nel tempo ricordando un altro capitolo della storia dell’urbanistica italiana.
Cinquant’anni fa, più o meno di questi tempi, si davano alle stampe gli atti del VI Convegno Nazionale di Urbanistica, tenutosi a Lucca l’anno precedente (novembre del 1957). Titolo del convegno e del volume: Difesa e valorizzazione del paesaggio urbano e rurale. La seduta inaugurale si apriva con la presentazione di Adriano Olivetti, presidente dell’INU, seguita dalla relazione di apertura di Giuseppe Samonà e dalla presentazione della proposta di legge quadro sulla tutela delle bellezze naturali e del patrimonio artistico e culturale, relatore Gianfilippo Delli Santi[28].
Si tratta, a mio parere, di un documento importante, uno dei tanti, che può essere utilizzato a testimonianza dello svolgersi di un dibattito (animato anche al di fuori dell’INU, si pensi solo agli interventi di Italia Nostra nata nell’ottobre del 1955) che già al tempo assumeva toni molto appassionati e decisi.
In questa raccolta di interventi, tra i diversi resoconti e prese di posizione, vi sono moltissime analogie con la discussione, tutt’oggi molto attuale, relativa al tema della concettualizzazione del paesaggio in relazione alle pratiche di gestione del territorio.
Tra gli interventi più interessanti sembra emergere quello di Edoardo Vittoria, singolare figura di intellettuale e di progettista fortemente segnato dall’esperienza olivettiana. All’inizio del suo contributo egli si sofferma sulla definizione di paesaggio per rendere più chiari quali debbano essere gli obiettivi di una difesa seria ma anche propositiva e creativa del paesaggio. Vittoria afferma che “il paesaggio può essere inteso unicamente come integrazione dello spazio fisico nel quale vive e lavora l’uomo contemporaneo” e prosegue dicendo che “l’ambizione di un nuovo paesaggio nasce da una riflessione su tutto il paesaggio esistente che non può essere scisso nelle sue parti buone e nelle sue parti cattive, secondo una schematica suddivisione dei periodi storici. […] Questa concezione del paesaggio – continua Vittoria – non più limitata ai soli elementi tradizionali, nasce in conseguenza di fatti edilizi, se si vuole anche negativi […] che hanno determinato problemi originali, espressioni di nuovi modi di vita, e che hanno condizionato la trasformazione del paesaggio verso un più razionale impiego delle opere naturali e delle opere costruite […]”[29].
Ho letto nelle parole di Vittoria, ma in realtà anche di molti altri protagonisti di quell’incontro e del più ampio dibattito di quegli anni, una grande vicinanza con quanto scritto, quasi cinquant’anni più tardi, ma forse in modo più opaco, nella Convenzione Europea del Paesaggio.
Questo mi fa dire, con ancora maggiore convinzione, che non è soltanto opportuno, ma addirittura necessario, certamente improcrastinabile, un slancio d’orgoglio rinnovato e di presenza costruttiva nella scena europea per la messa in campo di politiche territoriali profondamente riformate e basate sul ruolo strategico del paesaggio, nel rispetto anche di quest’ultima testimonianza storica che ci parla del grande impegno culturale e civile espresso dai molti intellettuali italiani nella difesa del patrimonio paesaggistico,
Gli esempi che citavo prima, in particolare quello della Catalogna, così ammirata dagli architetti e dagli urbanisti di casa nostra, devono significare che il cambiamento è possibile: un cambiamento che sia in grado di aprire una nuova stagione di impegno dove al dibattito seguono i fatti; alle strategie e ai programmi se si vuole, se si ha coraggio, i progetti.
[1] Come sappiamo la bibliografia attraverso cui studiare la genesi, l’evoluzione e il declino della cosiddetta «città diffusa» è straordinariamente ampia. Cito, per sintesi, il volume di F. Vallerani – M. Varotto (a cura di), Il grigio oltre le siepi. Geografie smarrite e racconti del disagio in Veneto, Nuova Dimensione, Portogruaro, 2005, dove, alle analisi di carattere strettamente fisico e funzionale, si affiancano acute riflessioni “sullo spazio vissuto, sulla qualità della vita, sulla quotidianità esistenziale, sul crescente disagio nei confronti del vistoso declino del bel paesaggio veneto, prestigiosa eredità millenaria di cui sembra essersi perso non solo il valore memoriale, ma anche le più elementari competenze per salvaguardarne l’integrità idrogeologica ed ecologica”, p.13.
[2] Il contesto in cui si formalizza questa nuova visione di «urbanistica continua e continuamente variata» è quello del VII Congresso INU del 1959 nell’ambito del quale si tenne una famosa «tavola rotonda» i cui temi furono riproposti da L. Quaroni, G. De Carlo e E. Vittoria in Urbanistica, n. 32, dicembre 1960 cit. anche in Durbiano G. – Robiglio M., Paesaggio e architettura nell’Italia contemporanea, Donzelli, Roma 2003, p. 37. I medesimi concetti vengono poi ripresi in De Carlo G., La nuova dimensione della città. La città regione, Relazione di sintesi al Seminario, ILSES, Milano 1962.
[3] Sui temi del regionalismo, agli albori della pianificazione regionale, vedasi tra gli altri Bonora P., I geografi nel dibattito sulla questione regionale (1944-1948), Pitagora Editrice, Bologna 1980; Corna-Pellegrini G., “La dimensione regionale della politica economica”, Civiltà degli scambi, settembre 1960 ora anche in Bonora P. (a cura di), Giacomo Corna-Pellegrini. Italia paese nuovo. Saggi geografici ed economici, Edizioni Unicopli, Milano 1989, pp. 103-116; AA. VV., La pianificazione regionale, Atti del IV Congresso Nazionale di Urbanistica (Venezia 18-21 Ottobre 1952), Istituto Nazionale di Urbanistica, Roma 1953.
[4] VII Congresso INU, cit.
[5] Durbiano G. – Robiglio M., cit., p. 79.
[6] L’approvazione, avvenuta nel 1985, della legge 431 (la cosiddetta legge Galasso) che impone alle regioni la redazione di piani paesistici e la messa a punto di strumenti specifici per le aree di tutela speciale serve, in qualche modo, a rilanciare l’interesse per il paesaggio attraverso però l’espressione di un approccio più generale ai temi dell’ambiente e della qualità del territorio. Per una ricostruzione, non convenzionale, della genesi della legge 431 cfr. F. Erbani, Uno strano italiano. Antonio Iannello e lo scempio dell’ambiente, Laterza, Bari 2002.
[7] Cfr. P. Castelnovi (a cura di), Il senso comune del paesaggio, Ires, Torino 2000.
[8] “Un modo per convergere nello studio intorno [al paesaggio] – sostiene Lucio Gambi – è quello di accoglierlo come problema: problema che manda a carte al vento i nostri tradizionali, gelosi ritagli disciplinari”, Gambi L., Riflessione sui concetti di paesaggio nella cultura italiana degli ultimi trent’anni, in Martinelli R. – Nuti L. Fonti per lo studio del paesaggio agrario, Atti del III Convegno di Storia Urbanistica, Ciscu, Lucca 1999, p. 9 ripreso anche in Durbiano G. – Robiglio M., cit., p. 79.
[9] Citato in Mazzoleni C., La relazione società e ambiente in una prospettiva maieutica: incontro con Danilo Dolci, http://danilo1970.interfree.it/prop.html.
[10] Ibidem.
[11] E. Bloch, Il principio della speranza, Garzanti, Milano 1994. Sull’interpretazione del pensiero di Bloch vedasi anche Pozzoli C., L’utopia possibile. Per una critica della follia politica, Rusconi, Milano 1992.
[12] Sull’esperienza dell’Observatoire photographique du paysage e del Bureau des paysages del Ministére de l’Amenagement du territoire et de l’Environment si veda Seguin J.-F., Séquence paysages-revue de l ‘Observatoire Photographique du Paysage - 2000, Arp Éditions, Bruxelles 2000.
[13] Cfr. Observatori del Paisatge, http://www.catpaisatge.net. Per un inquadramento sulle politiche territoriale e il paesaggio in Catalogna e in Spagna cfr. Nogué J., El tratamiento de la temática paisajística en Cataluña y en Espagna, in Mata R. – Tarroja A., El paisaje y la gestión del territorio. Criterios paisajísticos en la ordenación del territorio y el urbanismo, Deputació Barcelona – Xarxa de municipis, 2006, pp. 53-60.
[14] Per uno rapido sguardo alla recente esperineza inglese vedasi Selman P., “Community Partecipation in the Planning and Management of Cultural Landscape”, Journal of Environmental Planning and Management, Vol. 47, No. 3, May 2004, pp. 365-392; Id., “The ‘Landscape Scale’ in Planning: Recent Experience of Bio-geographic Planning Units in Britain”, Landscape Research, Vol. 30, No. 4, October 2005, pp. 549-558; Id, Planning at the Landscape Scale, Routledge, London, 2006.
[15] Latouche S., Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 43; Id., La scommessa della decrescita, Feltrinelli, Milano, 2006. Sul tema dell’agire della “società paesaggistica” si veda tra gli altri Donadieu P., “Può l’agricoltura diventare paesistica?”, in Lotus, n. 101, 1999, pp. 60-71; Id., La société pajsagiste, Actes Sud-Ensp, Arles 2001; e Clement G., Manifesto del Terzo paesaggio, Quodlibet, Macerata 2005.
[16] Ivi, p. 44.
[17] Assunto R., Il paesaggio e l’estetica, Edizioni Novecento, Palermo 1994, p. 22.
[18] Ivi, p. 24
[19] Ibidem.
[20] Ibidem.
[21] Comitato per la Bellezza – Centro Studi TCI, Un Paese spaesato. Rapporto sullo stato del paesaggio italiano, I Libri Bianchi del Touring Club Italiano, n. 12, 2001
[22] Erbani F. “L’assalto al paesaggio”, La Repubblica, 20 giugno 2007, p. 59.
[23] Cfr. Urry J., Consuming Places, Routledge, London 1995
[24] Lanzani A., Qualificare/Regolare le trasformazioni, in Clementi A. (a cura di), Interpretazioni di paesaggio, Meltemi, Roma 2002, pp. 262-291 anche in Lanzani A., I paesaggi italiani, Meltemi, Roma 2002, pp. 206-255.
[25] Sul tema cfr. anzitutto Berque A., Mediance. De milieu en paisage, Gip Reclus, Montpellier 1990. Per un inquadramento più generale sul tema del milieu in rapporto ai temi urbani e territoriali cfr. Governa F., Il milieu urbano. L’identità territoriale nei processi di sviluppo, Franco Angeli, Milano 1997.
[26] Entriking N., The betweeness of the place, Towards a Geography of Modernity, Macmillan, London1991, p. 7.
[27] Sul tema cfr. Magnaghi A., Il progetto locale, Bollati Boringhieri, Torino 2000; Bonora P., Sistemi locali territoriali, trascalarità e nuove regole della democrazia dal basso, in Marson A. (a cura di), Il progetto di territorio nella città metropolitana, Alinea, Firenze 2006, pp. 113-120.
[28] AA.VV., Difesa e valorizzazione del paesaggio urbano e rurale, Istituto nazionale di Urbanistica, Roma 1958.
[29] Vittoria E., Una nuova concezione del paesaggio, ivi, p. 146-147.