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Joseph Rykwert
Se una città ti seduce
17 Aprile 2008
Città Territorio Festival 2008
Francesco Erbani intervista lo storico dell’architettura, in occasione dell’apertura del Città Territorio Festival (Ferrara, 17-20 aprile). La Repubblica, 17 aprile 2008

Che cos’è che fa di un luogo «un luogo seducente». E che cosa, al contrario, fa sì che un luogo emani disagio, alienazione.

Da molti anni Joseph Rykwert, storico dell’architettura, origini polacche, a lungo professore negli Stati Uniti, adesso londinese, uno dei grandi studiosi della città e delle sue forme - dal mondo classico alle moderne megalopoli - indaga sul senso profondo di una costruzione urbana, al di là degli aspetti architettonici, economici e persino razionali fino a sondare un limite che sembrerebbe del tutto improprio, trattando di questi argomenti, quello che distingue il conscio dall’inconscio. La seduzione del luogo si intitola uno dei suoi libri più celebri, un libro che torna in questi giorni dopo molti anni (Einaudi, pagg. 366, euro 26).

Il tema della seduzione coglie la città nel momento in cui essa attraversa, sostengono tanti urbanisti, un passaggio di stato.

Cosa sia città è difficile a dirsi con la stessa sicurezza di quando essa era un aggregato piuttosto denso di edifici e di strade, di centro e di periferia, sufficientemente distinto da ciò che città non era. La città ora si disperde, secondo alcuni esplode, secondo altri rimette insieme i suoi pezzi sparsi in quella che un tempo era campagna. Si trasforma, seguendo logiche riconoscibili, oppure soddisfacendo interessi speculativi. Questo accade in maniera molto diversa, spiega Rykwert, da un capo all’altro del pianeta. Ma accade un po’ ovunque. Una delle frasi che Rykwert predilige è di Italo Calvino, da Le città invisibili:

«Le città credono d’essere opera della mente o del caso, ma né l’una né l’altra bastano a tener su le loro mura».

Partiamo da qui, professor Rykwert, che cos’è la seduzione di un luogo?

«Per qualsiasi insediamento occorre risalire a una serie di fattori conoscitivi che lo governano, a fattori simbolici. Prenda la città di epoca romana».

Com’è nata quella città?

«Si era sempre detto che fosse l’esempio di un ordine razionale, perché si ispirava al modello dell’accampamento militare. E invece è vero il contrario. Sia l’accampamento che la città potevano essere abitate solo dopo cerimonie che ne spiegavano il senso.

Quella pianta rettangolare rispecchiava credenze, oltre all’idea che gli uomini avevano del mondo e al posto che occupavano in esso».

Prima la seduzione e poi altri fattori più razionali.

«Nel mondo antico la pianta di una città corrisponde a certe idee sull’ordine del cosmo, per esempio. Successivamente intervengono questioni economiche e politiche, la divisione dei suoli, delle proprietà. Poi, quando quelle concezioni cosmologiche si sono logorate, si è passati a costruire le città cercando un altro ordine dentro sé stessi e modellando in questo modo l’ambiente».

Di ciò lei parla a lungo in un altro suo libro, L’idea di città. La seduzione è dunque una forza intrinseca al tessuto urbano.

«A Città del Messico, nonostante l’immensa estensione delle sue baraccopoli, esiste un centro raccolto intorno allo Zòcalo, la piazza tracciata da Cortés all’indomani della Conquista, la cui potenza attrattiva non è cancellata da una crescita urbana incontrollata. Persino Manhattan, il luogo al mondo più conformato dalla globalizzazione, ha uno status di città che non è solo economico. La seduzione dipende in gran parte anche dalla nostra capacità inventiva nel manipolare concetti e forme».

Si spieghi meglio.

«In generale la città moderna appare piena di contraddizioni. Ospita culture diverse, gruppi etnici diversi, religioni diverse. Questa sua frammentazione, questa sua disponibilità, persino i suoi conflitti sono attraenti».

Lei ha studiato il Rinascimento italiano, Leon Battista Alberti, «la città ideale», descrivendo come l’architettura si proponesse il rinnovamento sociale. Ora questa pretesa pare messa in forte discussione. Perché?

«Perché si contestano quei sistemi politici dirigisti, sia di destra che di sinistra, e l’architettura razionalista che nel Novecento hanno costruito quartieri più o meno sperimentali, che nonostante fossero molto costrittivi, lasciavano intuire un’idea di riorganizzazione sociale».

Lei si riferisce ai grandi insediamenti popolari, anche molto diversi fra loro, sorti in tante città europee.

«A Francoforte o ad Amsterdam gli abitanti di questi insediamenti sono spesso contenti della loro sorte. Ma preponderante è il luogo comune che un esperimento sociale, frutto di un pensiero utopico, sia solo un’avventura fallimentare. Ora siamo approdati a uno stadio della società tardo-capitalista nel quale l’idea che un’impresa edilizia produca un miglioramento sociale sia fasulla e controproducente. E’ l’ideologia del mercato imperante più che il fallimento di un progetto legato a un’idea di società».

Secondo le Nazioni unite, più di metà della popolazione mondiale vive oggi in un contesto urbano. Che impressione le fa?

«E’ un’impressione paurosa. Perché lo svuotamento del mondo rurale non può che portare a carenza di cibo, di grano e di riso, in particolare, che grava soprattutto sui paesi poveri».

E in effetti è nei paesi poveri che si concentra questo nuovo urbanesimo. Ma che cosa c’è di urbano in città come Kinshasa, Nairobi, Lagos o Città del Messico? Che cosa seduce di questi luoghi?

«Ogni luogo ha la sua storia e modi diversi di seduzione. Non bisogna fermarsi ai dati che indicano solo le quantità di crescita. Città del Messico, come le dicevo, ha poco a che fare con le altre metropoli che lei cita. Ha una storia millenaria. E la relazione difficilissima tra il suo centro e le favellas ci rimanda alla crescita delle prime città industriali e ai modi in cui si attirava popolazione rurale, una storia complessa, tragica. Il Congo e il Kenya sono invece società costruite sulle rovine di stati semi-nomadi, con forti divisioni tra loro. E la Nigeria ha un’altra storia ancora, legata al passato del grande impero africano».

Non generalizziamo, lei insiste, anche di fronte a fenomeni che appaiono simili come la spaventosa crescita delle megalopoli africane. A costo di sbagliare, le chiedo: come giudica il fenomeno della dispersione abitativa?

«Mi pare già in fase di trasformazione. Il tessuto sociale sta producendo nuove aggregazioni e credo che ancora non siano perfettamente compresi gli effetti delle comunicazioni elettroniche».

E dal punto di vista della qualità ambientale? Questo modo di occupare il territorio non è sempre più dipendente dalle automobili, costose e inquinanti?

«Questo è un problema, sicuramente. Ma va esaminato caso per caso. E poi non credo che i gas di scarico siano l’effetto peggiore, quanto il fatto che la rete stradale è sommersa da una marea di automobili che saturano lo spazio. A San Paolo del Brasile i ricchi preferiscono l’elicottero per muoversi in città».

Molte grandi città si trasformano con le Olimpiadi. Milano ospiterà l’Expo del 2015. E si sono subito aperte polemiche. Come giudica queste occasioni? Si può evitare che si trasformino in pure operazioni immobiliari?

«Le Olimpiadi hanno avuto effetti positivi solo nelle città che hanno assorbito il loro impatto, come Barcellona. In altri luoghi lo sforzo finanziario ha lasciato una scia di debiti. Dopo il fiasco pubblicitario della fiaccola di Pechino e le delusioni degli ultimi Expo mi sembra legittimo chiedersi il perché di tante attenzioni. Sono comunque esperienze che si collocano ai bordi della vita urbana».

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