"La Costituzione americana del 1787 lasciò aperta la questione della schiavitù, questione non piccola. Noi abbiamo lasciato aperta una quantità di questioni irrisolte molto minore di quella che ha permesso di creare il primo Stato federale della storia". Il Consiglio dei ministri aveva appena approvato, il 3 agosto, il progetto di legge sul federalismo fiscale e Tommaso Padoa-Schioppa commentava così i molti contrasti che lo hanno accompagnato. E messa così, è come lui dice. Anche se sarebbe stato meglio se il progetto avesse già incassato il consenso della Conferenza di regioni, province e comuni (che invece, non si è potuta neppure riunire per il rifiuto dei comuni).
Comunque, ha ragione il ministro dell´Economia. La ripartizione dei soldi pubblici fra Stato, regione e comuni è una grande questione costituzionale. Anzi: la più spinosa che ci sia. Di fronte ad essa, tutte le altre di cui tanto si sente parlare diventano secondarie. Legge elettorale, referendum, democrazia nei partiti, coalizioni e fusioni politiche, poteri del premier e così via: sono certo cose assai importanti ma, a ben vedere, riguardano la nostra forma di governo. Il federalismo fiscale riguarda invece la nostra forma di Stato. Cioè la maniera con cui si dividono e si intrecciano le decisioni tra la capitale politica e i centri territoriali; i rapporti tra le regioni e le minori comunità locali; la disponibilità delle risorse finanziarie per i servizi pubblici; e, infine e in principio, la garanzia uguale dei diritti civili e sociali dei cittadini.
Per dirla in altri termini, la vita quotidiana degli italiani non cambia molto se il sistema elettorale è maggioritario o proporzionale, "alla tedesca" o "alla spagnola"; oppure se si forma un grande partito di centro-sinistra, con le "primarie", o una grande confederazione di centro-destra, per volontà sovrana. Il "giorno per giorno" dei cittadini risente invece, moltissimo, del livello di efficienza dei servizi pubblici come sanità, scuola e trasporti e del grado di vivibilità delle città. Perciò la "Costituzione della vicinanza" è come una rete che accomuna tutti ed ognuno. I suoi nodi sono: la quantità di soldi del contribuente che possono essere spesi dai sindaci e dai "governatori" di regioni; le entrate che i governi territoriali si possono procurare con imposte proprie senza attenderle dallo Stato; la trasparenza dei conti e del rapporto tra dare (al fisco "vicino") e avere (in servizi); la misura giusta e controllabile degli aiuti tra le regioni secondo il principio di solidarietà nazionale.
Come il Dna, il progetto del governo ha una doppia elica. Quella del decentramento fiscale: che disegna un sistema di tributi propri dei governi territoriali, autonomi rispetto a quelli dello Stato ed operanti "nelle materie non assoggettate a imposizione da parte dello Stato". L´altra elica è quella del coordinamento complessivo della finanza pubblica e del sistema tributario. In certi punti le due eliche si intrecciano e sono lì le cinque questioni aperte del nostro federalismo fiscale.
Questione numero uno. La tenuta complessiva del sistema delle entrate e delle spese pubbliche ("nel rispetto dei vincoli derivanti dall´ordinamento comunitario" come dice la Costituzione). E´ giusto che sia la prima questione. Anche negli Stati di federalismo "maturo" sta suonando l´allarme sugli impedimenti, le nicchie, i privilegi che ogni sistema di assolutismo federale ha tendenza a produrre.
Il coordinamento complessivo del sistema tra finanza centrale e finanza territoriale è affidato dal progetto ad una legge "collegata" alla legge finanziaria statale. Essa sarà presentata, ogni anno, assieme al Documento di programmazione economico-finanziaria. In questo modo il Parlamento potrà fissare sia i saldi e il tetto all´indebitamento delle istituzioni territoriali sia soprattutto il livello della pressione fiscale, ripartito tra i tributi del governo centrale e quelli dei governi locali.
Nessuno può contestare che spetti al Parlamento stabilire l´equilibrio finanziario nazionale. E che non vi debbano essere entrate o spese "periferiche" che sfuggano al suo occhio. L´euro circola infatti dappertutto, da Bolzano a Palermo. E non vi possono essere regioni "speciali" che si sottraggano alla responsabilità per la sua tenuta. Questa dipende infatti anche dalla buona gestione del conti pubblici della nostra Repubblica, tutta intera. Preoccupa perciò che, per cautela costituzionale forse oramai eccessiva, il progetto rimandi, per le regioni speciali, questa esigenza di coordinamento generale alle norme di attuazione dei loro "statuti". Non è così che si bloccheranno i tentativi di migrazione dei comuni delle regioni confinanti con quelle "speciali" (il referendum per Cortina d´Ampezzo si farà il 24 ottobre…).
Questione numero due. La perequazione: cioè gli aiuti dello Stato e delle regioni più ricche ai territori "con minore capacità fiscale per abitante". La Costituzione garantisce infatti, per tutto il territorio nazionale, sia i "livelli essenziali" dei diritti civili e sociali, sia la copertura "integrale" delle funzioni amministrative fondamentali che incidono direttamente sulla vita dei cittadini.
Il progetto dice che lo Stato farà la sua parte con l´istituzione di tre "fondi perequativi": per le regioni, per le province, per i comuni. Ma le difficoltà si annidano negli aiuti orizzontali fra regioni e regioni.
Le regioni "ricche" hanno naturalmente i mezzi per coprire tutte le funzioni che la Costituzione attribuisce loro. Inoltre possono chiedere al Parlamento di svolgere e finanziare altri compiti ora riservati allo Stato. Quello che non possono fare è tenersi, a loro uso e consumo, tutti i soldi riscossi nel loro territorio. In ogni caso non possono sfuggire, secondo il progetto, alle "esigenze di perequazione". Ma anche per le regioni " che ricevono" si pone un problema di responsabilità nazionale. Certo, i soldi del fondo perequativo sono costituzionalmente "senza vincolo di destinazione". Ma la Costituzione non dice che sono anche senza vincoli di rendiconto. In Paesi più attenti del nostro alla spesa pubblica, chi dà i soldi pretende lo spending review e l´accountability. Cioè: fammi vedere come hai speso i "miei" soldi, e se non li hai spesi bene, non te ne do più. Le regioni "che danno" se chiedessero anche da noi un meccanismo di controllo (sanzionatorio) di questo tipo non solo sarebbero nella legittimità costituzionale, ma farebbero cosa utile per l´intero Paese.
Questione numero tre. La certezza dei dati numerici. Il progetto di federalismo fiscale è un progetto matematico. Le formule giuridiche in esso contenute rimandano continuamente a cifre. Deve essere "cifrato", con variazioni annuali, l´equilibrio istituzionale tra Stato e governi territoriali. E devono essere calcolati: i costi standard per i servizi essenziali; gli indici di fabbisogno finanziario; il mix tra tributi locali, addizionali ai tributi statali e quote "perequative"; il costo delle "funzioni fondamentali" e così via. Essenziale appare allora l´individuazione dell´autorità pubblica che dovrà compiere, in maniera incontestabile, questi complessi calcoli. L´Istat certo e in primo luogo, per il suo prestigio nazionale ed europeo (in Eurostat). Ma in vista di tutto questo, su un terreno di naturale conflittualità di interessi, sarebbe bene farlo diventare un super- Istat con più nitide garanzie di indipendenza, se non con la sua "costituzionalizzazione".
Questione numero quattro. Il rapporto tra regioni e comuni. E´ zona di guerra tra le nostre due storiche istituzioni territoriali. Guerra dura ma pura: per una volta destra e sinistra non c´entrano niente. Si scontrano due ragionamenti e non due schieramenti.
Le regioni fanno valere due vincoli costituzionali da rispettare. Il primo è il principio generale che i tributi possono essere imposti solo "in base alla legge" (qui: legge regionale). Il secondo è che le regioni concorrono con lo Stato " al coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario". I comuni ricordano la specialità della norma costituzionale per cui anche essi hanno il potere di "stabilire" ed "applicare" tributi propri. E ricordano la pari dignità che la Costituzione riconosce a regione e comuni nella gestione della propria autonomia.
Il progetto non è riuscito a trovare formule d´equilibrio. Né quando, per il coordinamento fiscale, prevede che le regioni possano "istituire tributi locali" (e non solo, com´è giusto, "determinare le materie nelle quali i comuni possono stabilire tributi locali"). Né quando, per il coordinamento della finanza territoriale, prevede che i comuni siano divisi in due fasce per popolazione. Nella fascia superiore il coordinamento, anche attraverso il fondo perequativo, spetterebbe allo Stato. Per i comuni con meno abitanti, spetterebbe alle regioni. Divisione certo arbitraria e di macchinosa gestione (a cominciare dalla determinazione delle due fasce).
Detto questo è però anche chiaro che la possibilità per i nostri comuni di evitare il temuto "centralismo regionale" passa per la loro riduzione numerica, almeno per poter svolgere determinate funzioni: 8000 comuni (di cui 7 mila con meno di 10 mila abitanti) sono una enormità. E allora sia che si tratti di gestione di servizi (come sta prevedendo il "codice delle autonomie" all´esame parlamentare) sia che si tratti di poteri fiscali e finanziari, la stessa nozione di "comune" va ristretta. E per "comune" dovrà intendersi, ai soli fini della legge sul federalismo, una entità municipale singola o aggregata, con almeno 15 mila abitanti (fermo restando sotto ogni altro aspetto l´identità storica di tutti i comuni e le loro funzioni tradizionali).
Questione numero cinque. Il Senato. Cioè il problema dei problemi. Perché è evidente che nessuna delle questioni irrisolte potrà comporsi se non in un luogo dove i rappresentanti delle autonomie territoriali abbiano effettivi poteri di co-decisione. Questo progetto ha segnato anche il punto di estrema crisi e quasi di irrilevanza della Conferenza Stato-istituzioni territoriali, del cui consenso ha potuto fare a meno.
Eppure è proprio dalla Conferenza Stato-istituzioni territoriali, un organo con 30 anni di esperienze, che si deve cominciare, andando contromano, per costruire un Senato-casa delle autonomie. Un Senato con funzioni federatrici. Perché in un Paese con fortissime autorità territoriali (a cominciare dalla elezione diretta del sindaco e dei "governatori") non ha alcun senso che esse siano prive di voce e poteri diretti nel sistema parlamentare. E, come nel Bundesrat tedesco, la voce più autorevole deve essere quella dei governi territoriali. L´invenzione del nuovo Senato passa dunque per la "parlamentarizzazione" e la "costituzionalizzazione" della Conferenza; con i "governatori" di tutte le regioni, i sindaci delle nove "città metropolitane" e i rappresentanti dei presidenti delle province e degli altri ottomila comuni. E in più, non più di cento senatori eletti direttamente nelle regioni o con elezioni di secondo grado dai consigli regionali.
Del nuovo Senato nel progetto, per ovvie ragioni tecniche, non si parla. Ma le ragioni politiche dicono che è questo il punto in cui la "Costituzione della vicinanza", espressa nei complicati meccanismi del federalismo fiscale, deve congiungersi con la Costituzione parlamentare di un Paese che funzioni.
Ha fatto dunque bene il governo a forzare la mano e a portare il progetto in Parlamento, rompendo un abbandono dei temi "federali" che durava dal 2001. Certo, non c´è una questione aperta come quella della schiavitù nell´America del 1787. Ma ci sono i problemi appena visti e altri ancora. E tuttavia non vi è interesse nazionale più grande in confronto a quello di chiudere bene questa partita, prima che si concluda – quando che sia – la legislatura.