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Luca Mercalli
Il monumento allo spreco
4 Dicembre 2008
Articoli del 2008
«Cemento e cavi d’acciaio hanno preso il posto della buona terra del "Bonafous"». La Repubblica ed.Torino, 4 dicembre 2008

Ho abitato per vent’anni davanti alle Alpi e per altri dieci davanti al Delle Alpi. Dalla mia finestra, là dove poi fu costruito lo stadio di Italia 90, vedevo il vasto orizzonte alpino, dal Rocciamelone al Gran Paradiso, lasciato libero dai campi sperimentali dell’Istituto Agrario Bonafous.

Chi si ricorda più di quella benemerita scuola agraria? Venne fondata nel 1871, con l’obiettivo di promuovere una radicale riforma delle tecniche agricole tramite la formazione dei giovani agricoltori. I campi sperimentali di quella succursale extraurbana erano terreno ottimo, lavorato e concimato alla perfezione. Soffrii molto quando, verso la fine degli anni Ottanta, venni a sapere che sarebbero stati sacrificati al calcio dei mondiali per costruirvi il nuovo stadio. Cominciarono le discussioni sui progetti, gli sguardi chini sui plastici, le dichiarazioni dei politici, il conto salato da pagare, giustificato però dal prestigio che sarebbe piovuto su un’area periferica e degradata di Torino: Madonna di Campagna-Vallette.

Vedrete, tutto sarà riqualificato, pulizia, ordine, modernità, questo quartiere diventerà il centro del mondo. Io sentivo che erano menzogne, ma le ruspe arrivarono e abbatterono il Bonafous, conservandone solo la modesta palazzina uffici all’ingresso dell’attuale complesso sportivo. Chissà dove finì la buona terra, sostituita da tonnellate di calcestruzzo e da una selva di cavi metallici, anche belli, a loro modo, non c’è che dire. Ma ormai non vedevo più le Alpi, bensì il Delle Alpi. Pazienza.

Arrivarono i mondiali, e l’unica cosa che cambiò era che non si trovava parcheggio in tutto il circondario, nemmeno per i residenti. Poi tutto finì in fretta. I cartelli indicatori con il pallone tricolore arrugginirono, la sporcizia aumentò per la maggior frequentazione dei tifosi, Madonna di Campagna-Vallette non diventò il centro del mondo, non fu dotata di maggiori servizi, anzi, oggi è uno dei tristi poli della prostituzione stradale cittadina, che almeno, allora, non c’era.

Vent’anni fa mi indignavo perché tanto denaro pubblico veniva trovato in un batter d’occhio per uno stadio e non per un ospedale o per le tante altre cose di cui sempre si sente urgenza in questo paese. Oggi veder demolire cento milioni di euro durati solo diciott’anni mi lascia sconfortato. Non solo gli annunci comuni a tutta la trionfale retorica delle grandi opere erano menzogneri, ma in questo caso pure paradossali: tocca ora spendere addirittura altri denari per distruggere e ricostruire. Dove andranno tutte quelle macerie? Da dove verranno le nuove materie prime? Troverei un senso alla demolizione se al posto del nuovo stadio, già vecchio a diciott’anni, nascesse un bosco, tornasse una campagna. Invece mi appare come simbolo della decadenza culturale, del fallimento del progetto urbanistico, del trionfo delle chiacchiere sui fatti e degli errori mai pagati, di nuovi proclami che ricoprono quelli vecchi in una spirale autoreferenziale di promesse e di nuova fiammante retorica.

Con gli ultimi resti di ricchezza di una nazione alla canna del gas, costruiremo dunque un nuovissimo e indispensabilissimo stadio. Forse lo smonteremo di nuovo, e non tra molto, per ricavarne aratri e coltelli.

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