Il gesto di Benedetto XVI ha la potenza e la debolezza di un atto solitario, non del tutto consequenziale, comunque extra- ordinario. Alcuni l’hanno chiamato rivoluzionario, ma le rivoluzioni rovesciano ordini esistenti, politici o ecclesiastici, e neanche loro hanno la virtù della stabilità: sempre secernono controrivoluzioni, Termidori, perfino restaurazioni. Tuttavia hanno un’immediata vocazione a divenire l’anno-zero di una Storia in mutazione: nascono nuove istituzioni, nuovi sovrani, che della rivoluzione sono figli anche quando la disconoscono.
Convocare il Concilio Vaticano II fu una rivoluzione, non meno contrastata di altre. Non così le dimissioni del Papa. Ogni parola della sua dichiarazione ha un peso particolarissimo: è piombo e insieme calamita, preme e magnetizza, è forte della propria debolezza. Non perché dia inizio a mutazioni subito visibili dell’istituzione Chiesa: la svolta c’è ma è tettonica, avviene sotto la crosta terrestre, chi l’imprime non necessariamente l’ha voluta e la vuole. È quello che la rende così strana, sconcertante. Lunedì abbiamo visto il Pontefice ritrarsi come il protagonista dell’Habemus Papam di Nanni Moretti. Ma attorno a lui non s’accampavano che volti imperturbati, senza increspature. Angelo Scola, sapendosi possibile successore, si concedeva a fedeli e giornalisti e già sopiva, troncava. Antiche abitudini erano lì, pronte a cancellare le rughe: «È per il bene della Chiesa... State tranquilli... Dio ci guida...». Pareva un assai ordinario democristiano. Anche questo non escludiamo: che la svolta tettonica venga presto minimizzata, sommersa. Quante volte diremo, negli anni futuri: quel che accade vanifica il graffio che fu la Grande Rinuncia. Polverizza la laicizzazione della Chiesa che il graffio in qualche modo e magari involontariamente presagiva. È inevitabile che le acque si richiudano, sopra il folle volo che ha sigillato la navigazione papale: il folle volo di quel «le mie forze non sono più adatte», vires meas ingravescente aetate non aptas.
È fatale che la faglia sia ricucita, proprio perché intravista sotto forma di inaudito scoppio di verità. Forse ciascuno di noi si dirà, come Montale negli
Ossi di Seppia: ho visto anch’io, andando in un’aria di vetro, «compirsi il miracolo: il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro di me, con un terrore di ubriaco». Ma siccome non dura, il vuoto, presentiremo anche il seguito: «Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto / Alberi case colli per l’inganno consueto. /Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto / Tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto».
L’inganno consueto è l’ipocrisia dei «sepolcri imbiancati» da scribi e farisei, nel Vangelo di Matteo. Come potrebbe essere diversamente, se teniamo a mente la storia e le opere di questo Papa? È facile parlare di svolte, ma quella vera, che toglie al Vaticano il potere temporale e gli restituisce l’enorme suo peso spirituale, ancora non è avvenuta. Non avvenne dopo la rivoluzione francese della laicità, cui la Chiesa rispose con l’assolutismo, e infine con il dogma dell’infallibilità. Non a caso il cardinale Martini denunciava un ritardo di 200 anni. Il potere temporale sopravvive mutando forme, come Proteo. Oggi la forma è quella dei valori non negoziabili, o supremi. E delle leggi naturali, di cui la Chiesa si erige a custode: come se esistesse un quid che trasforma la legge – il nòmos sempre rinegoziato – in physis immodificabile dall’uomo (la nascita, la morte, il matrimonio infine fra uomo e donna: un sacramento, per i cattolici, solo a partire dal 1439). Oppure il potere temporale s’afferma nella battaglia sulle radici cristiane d’Occidente e d’Europa, con effetti tragici sui cristiani in Medio Oriente.
Non è stata proficua questa lotta in favore della legge di natura o delle radici cristiane, per il trono petrino. La Chiesa precipita in Europa (nel solo ultimo anno: mille preti in meno, unitamente a un clero sempre più anziano). E perduta la Spagna non le rimane che l’Italia, ultimo bastione dove la laicità, chiamata laicismo per degradarla a dottrina, a credo, non ha da entrare. Per questo è difficile vedere nella rinuncia papale una laicizzazione della Chiesa di Roma. Resta l’inaudito delle dimissioni, e di quelle parole che uscivano lente, come da un respirare ingombrato da commozione o stanchezza.
Resta l’immagine di una solitudine che desta ammirazione ma inquieta, anche. Un ultimo volo della nave di Ulisse, forse: di chi nel suo legno, solo, si getta per l’alto mare aperto. Un presentimento di pericoli non detti. Una serietà al tempo stesso molto spericolata, molto romantica, molto tedesca. Un Papa italiano non oserebbe questo: il nostro non è un Paese romantico. Non sarà una rivoluzione, ma nulla sarà più come prima: una mossa simile, per la prima volta del tutto libera, non forzata da nemici esterni o interni, desacralizza per forza di cose il papato.
Se ci si può normalmente ritirare e non essere più Papa, vuol dire che non c’è più identificazione totale e perenne, tra la persona e la funzione. Sommamente conservatore, Benedetto XVI inaspettatamente innova, quasi avesse intuito le insidie stesse del sacro. La desacralizzazione toglie il coperchio sul santo, sul vero. L’ammissione di estrema umanità, di fallibilità, è immersione-immedesimazione nella
kènosis che svuota. Il sacro copre, non disvela. Distrugge l’idolo, e le vaste cupole, e le così sfarzose, troppo imponenti mitre dei vescovi. Quel che l’atto papale lascia in eredità è il mistero di Nicodemo e del vento così come glielo racconta Gesù nella clandestinità d’un incontro notturno: non sappiamo da dove venga né dove vada, ma può darsi che ti faccia rinascere dall’alto. Non appropriato (forse inelegante) è stato a mio parere il commento del cardinale di Cracovia Stanislaw Dziwisz. Citando Giovanni Paolo II, di cui fu segretario personale, ha stabilito, lunedì: «Dalla croce non si scende». Chi, e con quale autorità può dire una cosa del genere? Ammettere di «non farcela », fisicamente o esistenzialmente, non è meno eroico del martirio-testimonianza di Giovanni Paolo II. È un umanissimo grido d’impotenza, uno scendere i gradini del potere che sortisce l’effetto contrario: innalza. Enzo Bianchi dice che è un dono: «Una volta cessato l’esercizio del ministero, un altro può continuarlo e la persona che lo ha esercitato in precedenza scompare, diminuisce, si ritira».
È quanto fece Giovanni Battista. Forse chissà, questo Papa si è sentito, nel maturare la scelta di diminuirsi, più che mai vicino al Battista. L’invito a non scendere dalla croce non lo si rivolge neanche a Dio, se è vero che perfino Lui, prima del consummatum est, grida, si torce, e ha sete, e recita il salmo disperato di chi si sente abbandonato dal Padre che prometteva onnipotenza. Proprio Ratzinger, che sembrava impersonare il potere papale più arcigno, confessa di essersi trovato nella condizione più umana che si possa immaginare: quella della solitudine della coscienza, sola di fronte al Padre eterno, senza alcuna autorità terrena che potesse dirgli cosa doveva fare, e dove andava il vento.