Nel quotidiano parlare di economia sembra che la produttività abbia soppiantato la flessibilità. Del lavoro, è evidente. Non c’è intervento dei dirigenti confindustriali, del governatore di Bankitalia, di esperti radiotelevisivi, di manager, di politici dei maggiori schieramenti, che non rimarchi la necessità assoluta di aumentare la produttività del lavoro. Per far salire le retribuzioni, reggere la competizione con i paesi emergenti, rilanciare il tasso di crescita del paese. Quel che nella discussione sovente non è chiaro è che cosa realmente si intenda per produttività del lavoro. Non è questione da poco. Infatti, a seconda del significato che si attribuisce a questa parola, le azioni da intraprendere in varie sedi saranno assai differenti, così come lo saranno le conseguenze per i lavoratori.
La definizione più appropriata di produttività del lavoro vede in essa il valore aggiunto (o frazione di Pil) prodotto per ora lavorata. Prendiamo due lavoratori, Carlo e Luigi, di pari età e competenza professionale. Il lavoro di Carlo, tutto compreso, costa 30 euro lordi l’ora, mentre il prodotto che lui realizza in un’ora vale 50 euro. In questo caso il valore aggiunto è di 20 euro. Il lavoro di Luigi, dipendente da un’altra azienda, costa di più, 40 euro l’ora, ma quel che produce ne vale 65. Poiché il suo valore aggiunto tocca i 25 euro, la produttività del lavoro di Luigi è maggiore di quella di Carlo. Supponiamo ora che il suo capo dica a quest’ultimo che se proprio vuole un aumento di salario deve aumentare la produttività: additandogli, per stimolarlo, l’esempio di Luigi. Che cosa deve fare Carlo per soddisfare una simile richiesta? A rigore, ha una sola scelta: lavorare più in fretta. Accelerare i movimenti. Come il suo omonimo Charlot in Tempi moderni. Deve avvitare più freneticamente i bulloni che il nastro trasportatore gli fa scorrere davanti, senza saltarne uno, a costo di finire anche lui nel ventre della macchina che li muove – con qualche rischio in più a paragone del personaggio del film.
Prima di mettersi ad emulare Charlot, Carlo potrebbe però avanzare qualche obiezione. Ad esempio potrebbe dire che se gli dessero dei mezzi di produzione più moderni, come quelli di Luigi, in luogo dei residuati di vent’anni fa con cui deve arrangiarsi, produrrebbe di più, senza dover lavorare a ritmi infernali. O che l’organizzazione del lavoro studiata dai tecnici a tavolino, magari imposta da una lontana impresa capogruppo che dei problemi locali non capisce nulla, spreca l’intelligenza e l’esperienza delle persone anziché utilizzarle al meglio. Che quelli della ricerca & sviluppo potrebbero finalmente inventarsi qualcosa che abbia un più elevato valore d’uso, in modo da poter essere venduto a un prezzo migliore, facendo così crescere il valore aggiunto per ora lavorata.
Potrebbe anche far notare, il Carlo, che i materiali, i semilavorati, i componenti che arrivano nel suo reparto da una regione vicina, oppure dalla Turchia, dalla Malesia o da un’altra parte del mondo, presentano spesso difetti o ritardi che provocano rallentamenti della produzione. Un problema che rende quasi impossibile valutare quale sia la produttività del lavoro di una data unità produttiva, visto che in moltissimi casi due terzi se non tre quarti, in valore, d’un qualsiasi manufatto o servizio provengono appunto dall’esterno. Per cui la maggior produttività di Luigi a confronto di Carlo potrebbe derivare da una miglior catena globale di subfornitura, non già dal fatto che lavora meglio o più in fretta.
Nell’insieme le obiezioni di Carlo che non vorrebbe diventare Charlot stanno a significare che allo scopo di aumentare la produttività del lavoro, e con essa i salari, non esiste soltanto la formula "lavorare di più per guadagnare di più". Esiste anche quella che consiste nel fare maggiori investimenti in capitale produttivo, ricerca e sviluppo, innovazioni organizzative interne ed esterne, formazione. Quegli investimenti che le imprese italiane non amano fare, o fanno in misura assai inferiore rispetto a quella che i loro utili gli permetterebbero. Tanto per dire, i cinquanta maggiori gruppi italiani quotati in borsa hanno realizzato nel 2006 (dati Mediobanca) oltre 42 miliardi di utile. Nel 2007 non dovrebbero essere lontani dai 50 miliardi.
Dopo avere equamente rimunerato gli azionisti, gran parte dei suddetti gruppi potevano spendere il resto degli utili in investimenti rivolti ad aumentare la produttività del lavoro. Hanno invece speso somme colossali, ancora in tempi recenti, nel riacquisto di azioni proprie, o buybacks. Lungi dall’essere il segno d’una lungimirante politica industriale, come sono immancabilmente salutati dai commentatori economici, i buybacks sono effettuati in prevalenza allo scopo di far salire il prezzo delle azioni. Avendo di mira un duplice risultato: rendere più ostici eventuali tentativi di scalata al proprio gruppo da parte di altri gruppi, e soprattutto aumentare il guadagno derivante dalle opzioni sulle azioni che i manager hanno sottoscritto in passato (senza versare un euro), in attesa di tempi in cui il valore delle azioni sale di molto. Quelli, appunto, che il riacquisto delle azioni proprie miracolosamente avvicina. Risultati conseguiti a scapito degli investimenti e dell’aumento che questi potrebbero recare alla produttività del lavoro.
Il dubbio che a questo punto affiora è che, tutto sommato, alle imprese un aumento di produttività ottenuto accrescendo il valore aggiunto per ora lavorata in realtà importi poco. Naturalmente, se Carlo accetta di lavorare ai ritmi del film di Charlot tanto meglio. Ma in fondo basterebbe che lavorasse più a lungo. Nessun bisogno di investimenti per rinnovare gli impianti, migliorare l’organizzazione, inventare prodotti migliori. Sarebbe sufficiente che facesse un congruo numero di ore di straordinario, che lavorasse qualche sabato in più, o facesse qualche giorno di ferie in meno. Avvicinandosi così agli orari degli americani. Al riguardo il presidente di Confindustria è stato esplicito: ogni cinque anni in Italia, ha detto, si lavora un anno di meno che negli Stati Uniti. Trascurando qualche dettaglio. Gli americani lavorano 1800 ore l’anno anziché 1500, e fanno in media otto giorni di ferie pagate in luogo di trenta, perché l’assicurazione sanitaria privata di cui debbono forzatamente avvalersi è costosissima, l’istruzione universitaria per i figli pure, le retribuzioni di gran parte dei lavoratori dipendenti sono cresciute, in termini reali, di pochissimi punti rispetto agli anni 70, e i sindacati hanno quasi perso ogni potere. Se questo è il modello soggiacente all’idea di lavorare di più per guadagnare di più, la nozione autentica di produttività del lavoro, perfino il mite Charlot avrebbe qualcosa da obbiettare. Se poi nei fatti, cioè nei futuri contratti, il dubbio citato sopra circa il significato reale di produttività dovesse rivelarsi infondato, saranno in tanti a rallegrarsene.