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Vittorio Gregotti
Il grande snobismo di Porta Nuova
18 Dicembre 2010
Milano
L’ennesimo progettone astronave calato dal nulla sulla città e una riflessione sull’architettura globalizzata. Corriere della Sera ed. Milano, 18 dicembre 2010 (f.b.)

L’altro giorno l’edizione milanese del Corriere ha pubblicato una pagina in cui era rappresentato a volo d’uccello il futuro insieme dell’area di Porta Nuova cioè dell’antico Centro Direzionale; forse una maligna illustrazione delle notizie disastrose intorno alla politica italiana che hanno dominato le prima pagine dei quotidiani lo stesso giorno. La storia di quell’area comincia quasi settant’anni or sono. In piena Resistenza, alcuni architetti del razionalismo italiano elaborarono una proposta per un nuovo piano di Milano.

Da quella data i progetti urbani sull'area si sono susseguiti tra polemiche scandali ma con un progressivo, inesorabile peggioramento: sino all'anti-progetto dei nostri anni. Non mi riferisco solo alle singole architetture (anche se con l'attuale condizione culturale a cui fanno riferimento le architetture di successo mercantile non vi è modo di sperare), ma soprattutto allo sgangherato disegno urbano che sembra persino non fare riferimento neanche a quella sciagurata «regola del caos sublime» tanto citata dagli architetti di successo mediatico globale. Sappiamo bene quanto l'ideologia della deregolazione, cioè della nozione di libertà come pura assenza di regole, abbia agito sulla città dei nostri anni: un tempo sulla decostruzione delle periferie, oggi contro i centri urbani, contro il disegno degli spazi tra le cose che è importante come le cose stesse, contro l'importanza dello spazio pubblico, come spazio della vita dei cittadini, a favore della sua progressiva privatizzazione.

Gli architetti di successo hanno rinunciato al disegno urbano per concentrarsi sulla bizzarria infondata dei linguaggi dell'oggetto singolare, trasformati in calligrafia al servizio del marketing: pubblico e privato. La violazione delle regole, anche se non vi sono più regole da violare, è diventata soprattutto una necessità di mercato e di successo mediatico degli architetti. — così non vi è molto da aspettare dalla responsabilità dei singoli architetti travolti (ma talvolta anche consenzienti) nei confronti dei prepotenti interessi immobiliari, ma certo ci si sarebbe aspettato qualche cosa di più da chi ha la responsabilità pubblica, che avrebbe dovuto avere un qualche controllo nei confronti del disegno di insieme e dei suoi obiettivi civili, un disegno nel nostro caso specifico talvolta tentato, ma incapace di resistere alle condizioni quantitative imposte dalle società proprietarie, che forse sono a loro volta affascinate dalla moda e dagli interessi nello stesso tempo.

Naturalmente bisogna anche tenere conto dello snobismo immobiliare che ha guardato soprattutto ad architetti con una forte esperienza quantitativa piuttosto che qualitativa (grossi architetti piuttosto che grandi architetti), ma assai poco sensibili alla storia in generale ed a quella culturale di Milano in particolar modo, al provincialismo dell'imitazione della grande metropoli globalizzata, all'altezza dei grattacieli come desiderio di vincere un «Guinness dei primati» . Ed il primo cattivo esempio lo ha dato, da questo punto di vista, proprio l'edificio della Regione in cui le relazioni contestuali sono le più disprezzate. Ha ragione il testo (troppo gentile e nobile) di Consonni pubblicato nelle stesse pagine del Corriere che conclude scrivendo che Milano «ha smarrito la strada dell'urbanità» .

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